Il Nicaragua rompe col Vaticano

La Chiesa cattolica non è che l’ultimo anello della catena di annientamento di qualsiasi espressione della società civile nicaraguense

di Gianni Beretta

Mentre a Roma si celebra il decennale del pontificato di papa Francesco, in Nicaragua gli eventi di questi giorni hanno fatto precipitare i rapporti fra il Paese dell’istmo centroamericano e l’Oltretevere, già assai deteriorati dalla rivolta popolare dell’aprile 2018: soffocata nel sangue di centinaia di giovani e quando la Chiesa locale tentò invano una mediazione dopo aver cercato di dare riparo ai ribelli nei propri templi. Il Governo del presidente Daniel Ortega ha annunciato la “sospensione” delle relazioni e “richiesto” alla Santa Sede la chiusura delle rispettive sedi diplomatiche; precisando curiosamente che non si tratterebbe di una rottura vera e propria. Quando fu ancora Ortega ad espellere esattamente un anno fa l’allora nunzio apostolico, il polacco Waldemar Stanislaw Sommertag, per essersi recato a Roma (lui decano del corpo diplomatico) invece di presenziare alla sua quarta investitura presidenziale consecutiva.

All’autarca nicaraguense non devono essere piaciuti gli apprezzamenti di “sua santità” della scorsa settimana quando a un giornalista argentino dell’agenzia Infobae che gli chiedeva cosa pensasse di Ortega che aveva affermato che “vescovi, sacerdoti e papi son tutta una mafia“ ha risposto: “Pur col dovuto rispetto non mi resta che pensare a uno squilibrio della persona che dirige; è come se fosse una dittatura comunista o hitleriana…”. E pensare che Bergoglio era stato fin qui rimproverato per l’eccessiva prudenza osservata nei suoi commenti sul regime orteguista. In gioco c’è ora più che mai l’ingombrante destino del vescovo di Matagalpa, Rolando Alvarez, condannato a 26 anni di carcere (per terrorismo e tradimento alla patria) proprio il giorno dopo che si è rifiutato di montare sull’aereo che nel febbraio scorso ha deportato negli Usa (liberandoli) 222 prigionieri nicaraguensi delle più
varie tendenze politiche, compresi storici dirigenti del sandinismo. Incredibilmente privati al contempo della nativa nazionalità, insieme ad altri 94 oppositori che si trovavano già in esilio. In quella circostanza nell’Angelus domenicale papa Francesco si era definito “amico” di mons. Alvarez. Che in realtà la Segreteria di Stato vaticana avrebbe preferito lasciasse il suo Paese per arginare le tensioni bilaterali.

La Chiesa non è che l’ultimo anello della catena di annientamento di qualsiasi espressione della società civile nicaraguense, che ha visto in questi ultimi cinque anni la messa al bando di oltre tremila fra associazioni, Ong ed entità, le più disparate e persino irrilevanti che non fossero nell’alveo del clan della famiglia del presidente Ortega e della sua vice (oltre che consorte) Rosario Murillo. Spesso con l’applicazione dell’ormai noto pretesto dell’”agente straniero”. Ma prima ancora era stata azzerata l’opposizione politica con la detenzione dei sette precandidati presidenziali alla vigilia delle farsa elettorale del novembre 2021. Per non parlare dell’oscuramento totale della libertà d’informazione.

Ortega, nel suo delirio messianico di potere, ogni volta nei suoi discorsi si richiama a “nuestro dios todo poderoso”. Ma è la moglie tuttofare Rosario a dedicarsi specificamente alla repressione dell’ambiente ecclesiastico incarcerando preti e religiosi, fino a cacciare lo scorso anno le innocue suore di madre Teresa di Calcutta. E ancora, minacciando i cattolici con i suoi provocatori inviti a predicatori fondamentalisti stranieri. Proprio lei che si considera l’integralista custode per eccellenza della fede cristiana in Nicaragua, tanto che qualcuno la chiama “la papessa”. Mentre dai più viene definita bruja (fattucchiera) per i suoi esorcismi e le decine di anelli che porta alle dita, ognuno contro un malocchio differente. È stata lei la mandante dell’attentato alla cappella del crocifisso nella cattedrale capitolina nell’agosto 2020. Così come l’organizzatrice, nel marzo precedente, del dissacrante boicottaggio dei suoi scalmanati fedelissimi alle esequie del padre-poeta Ernesto Cardenal, suo detestato concorrente letterario che durante la Rivoluzione Sandinista ricoprì paradossalmente il dicastero della cultura; insieme a ben altri tre preti-
ministri: all’insegna dello slogan “entre Cristianismo y Revolución no hay contradicción” (non c’è contraddizione).

Murillo è stata l’artefice del riavvicinamento di Ortega all’arcivescovo di Managua Obando y Bravo, principale nemico interno durante la rivoluzione (che papa Woytjla fece cardinale dopo la sua contestata visita del marzo ’83). Da lui si fecero risposare nella cattedrale in cambio di un appoggio elettorale per il ritorno al governo nel 2007. Fu lei a promuovere immediatamente dopo la legge contro l’aborto in Nicaragua. Ed oggi si accanisce contro una gerarchia che, salvo il vescovo Alvarez e qualche altra figura minore, francamente non è che si mostri così insidiosa. L’ultimo provvedimento in ordine di tempo disposto da Rosario Murillo, a nome del tanto sventolato Governo di Riconciliazione e Unità Nazionale del Nostro Nicaragua Benedetto e Sempre Libero, è la proibizione di tutte le processioni in vista dell’imminente “settimana santa”. Mentre una decina di giorni fa aveva provveduto alla chiusura d’autorità nientemeno che degli uffici della Caritas.

In copertina, la Basilica di San Pietro a Roma

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