La caduta di Boris

Dopo quasi tre anni, una Brexit, una pandemia e una nuova guerra in Europa, il premier britannico  è costretto a lasciare   

di Lucia Frigo da Londra

Dopo quasi tre anni, una Brexit, una pandemia e una nuova guerra in Europa, Boris Johnson si dimette da Primo Ministro inglese. Ha tentato di essere il nuovo Winston Churchill, il leader carismatico alla guida del Regno Unito in un momento storico di svolta, ma finisce la sua carriera al numero 10 di Downing Street suo malgrado, umiliato, e sfiduciato dal suo partito. Nel giro di due giorni il Paese ha assistito ad un’emorragia di quasi 50 ministri e funzionari del governo Johnson, a seguito dell’ennesimo scandalo di questo 2022 che ha visto il Primo ministro mentire, ripetutamente, per deflettere la responsabilità e salvare la faccia.

Ci si chiede ora cosa ne sarà del Regno Unito, in un momento così delicato: il Paese si è schierato da subito come uno dei principali alleati di Kiev contro l’invasione russa, inviando armi e supporto all’esercito ucraino, e dando l’esempio sulla scena internazionale – dalle promesse alla NATO agli accordi con Svezia e Finlandia per creare un fronte comune contro le mire espansionistiche di Putin. Il Paese ha accolto quasi 66mila rifugiati ucraini, con accordi speciali in termini di permessi di soggiorno e grandi strategie per l’alloggio e l’integrazione. Sin dall’inizio, il presidente ucraino Volodomir Zelenskyi ha pubblicamente elogiato il coinvolgimento di Johnson, le cui visite a Kyiv hanno raccolto il consenso britannico. L’unico tema, forse, sul quale il Paese si è trovato compatto attorno a Boris.

Una relazione talmente speciale, quella tra il governo Johnson e il popolo ucraino, che nel suo discorso di dimissioni il Primo Ministro ha avuto una parola anche e specificamente per loro: “ai cittadini dell’Ucraina. Sono sicuro che noi tutti nel Regno Unito continueremo a sostenere la vostra battaglia per la libertà, fino alla fine”. Una promessa che per il momento è facile da mantenere: dei vari ministeri che hanno disertato Johnson, le figure chiave nella lotta contro il Cremlino sono rimaste – strategicamente, forse stoicamente. Il Ministero della Difesa, quello degli Affari Esteri e il dipartimento per il commercio internazionale rimangono intoccati, a riprova che l’aplomb inglese non permette che le beghe domestiche si ripercuotano sul loro status internazionale.

Da un lato, infatti, Boris Johnson era impegnato sullo scacchiere internazionale – nei giorni scorsi, tra Parigi, Madrid, e ancora Kyiv, nello sforzo di rilanciare il Regno Unito come figura chiave a fianco dell’Ucraina contro il Cremlino; ma negli affari interni, il Primo Ministro si è trovato incastrato in una serie di scandali e accuse di abuso di potere, di aver mentito al pubblico inglese, di aver intrattenuto feste nella sua residenza in Downing Street mentre il Paese soffriva in silenzio il primo lockdown del 2020 con oltre duecento morti al giorno.

La maggioranza parlamentare fortissima vinta nel 2019 (seconda solo a quella raccolta nel 1983 da Margaret Thatcher) non è bastata al leader conservatore: i numerosi, sgraziati tentativi di Johnson di dare la colpa ad altri membri del suo staff hanno finalmente condotto il partito a voltare le spalle al “fenomeno Bo Jo”. Resterà, dunque, fino a fine estate quando il nuovo governo non sarà stato formato – una magra vittoria, per un uomo che è stato “trascinato fuori, scalciante e urlante” dopo aver cercato a tutti i costi di mantenere il potere a tutti i costi.

Con una crisi economica inferocita dall’uscita dal Mercato Unico Europeo, e una guerra che ha rimesso il Regno Unito sul podio degli stati chiave per la sicurezza internazionale, un cambio di leadership sembra azzardato, e lascia il Paese con il fiato sospeso. Ma è la riprova che “nessuno è indispensabile” (come ha rimarcato il premier uscente) perché la Global Britain è stabile e coerente, o almeno promette di esserlo. Insomma – al di là degli scandali, delle feste, delle accuse di abuso di potere – agli occhi del mondo, è business as usual.

In copertina, foto di Annie Spratt (unsplash)

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