La preoccupante questione orientale dell’India

L’india orientale (insieme al Nord-Est) è stato spesso definita il tallone d’Achille della Repubblica Indiana post-coloniale. Forse a ragione

Questo articolo non è solo una critica alla gestione cinica e miope dei conflitti etnici e religiosi interni all’unione e agli errori in politica estera da parte del Governo indiano, ma è anche un monito per l’Europa, dove nazionalismo, razzismo e rivalità etniche stanno crescendo pericolosamente.

di Subir Bhaumik*

I problemi attuali del Bengala e degli stati del Nord-Est hanno origine in parte dal modo in cui il subcontinente è stato suddiviso dopo l’indipendenza e in parte dal fatto che gran parte di questo vasto territorio non ha mai fatto parte di un impero prima dell’arrivo degli inglesi, a differenza delle altre regioni del continente indiano dove fin tempi dei Maurya (322-185 a.C., ndr.) fiorirono imperi transregionali.

La scelta dell’Impero Britannico di avere la città orientale di Calcutta come sua capitale conferisce alla questione orientale una sfaccettatura che l’avvicina all’Europa quando, con il crollo dell’impero austro-ungarico, le differenze e rivalità tra diverse etnie hanno portato alla Prima Guerra Mondiale e poi con quello della Jugoslavia comunista, alla Guerra dei Balcani.

La Repubblica Indiana post-coloniale è teatro da 75 anni di insurrezioni armate separatiste e sanguinosi massacri etnici negli stati del Nord-Est. Il problema non è il perché e il percome di questi conflitti, ma il motivo per cui sono persistiti e non hanno trovato una soluzione.

La preoccupazione maggiore è che l’attuale Governo di Delhi non solo non riesca a risolvere i conflitti ereditati dal partito del Congresso, ma che complichi ulteriormente la situazione sovrapponendo lo scisma religioso alle fratture etniche. I recenti scontri nel Manipur sono solo un esempio di questa tendenza – e di una voluta “presa di distanza da parte dello Stato” come avvenne in Gujarat nel 2002 quando l’attuale Premier indiano Narendra Damodardas Modi ne era a capo. La strategia è quella di non far nulla e lasciare che la maggioranza indù abbia la meglio sulle minoranze cristiane e musulmane.

È facile dar la colpa al Congresso per tutto ciò che è andato storto nel Manipur, come ha fatto il Primo Ministro Modi nel suo discorso in Parlamento, ma non si può dimenticare come i governi del Congresso, decennio dopo decennio, per eliminare il pungolo della violenza insurrezionale nel Nord-Est, abbiano cooptato alcuni dei gruppi armati nel mainstream nazionale, con la tecnica dello “Sham-Dam-Danda-Bhed” di Kautilya (riconciliazione politica, incentivo monetario, forza e scissione), favorendo l’eliminazione delle frange più estreme.

Il regime di Modi ha risolto solo “l’imbroglio dei Bodo nell’Assam”, ma non è riuscito a fare alcun progresso nel dialogo politico indo-naga, nonostante la firma dell’accordo del 2015 con l’NSCN (The National Socialist Council of Nagalim, il principale gruppo separatista Naga, ndr), un accordo che alludeva al concetto di “sovranità condivisa” e che ha portato Thuingaleng Muivah (segretario generale dell’NSCN, ndr) a chiedere una bandiera e una costituzione separate per il Nagaland. Non è pensabile che la coppia Modi-Shah (Amit Shah è il Ministro dell’Interno, ndr) la conceda, considerando che nella fase successiva alla riorganizzazione dello Stato di Jammu&Kashmir la parola autonomia è diventata una parolaccia in pieno contrasto con il motto “ek Nishan, elk Bidhan” (una bandiera, una politica).

L’abrogazione dell’articolo 370 ha perfettamente senso, perché era un relitto della spartizione su base religiosa, un riconoscimento del Kashmir a maggioranza musulmana come entità distinta, che non ha più senso dopo che questo principio stesso è crollato con la Guerra di Liberazione del Bangladesh del 1971, che ha invece diviso il Pakistan su base etnica.

Per questo motivo è assurdo che l’attuale “brigata zafferano” (integralisti indù, ndr) dell’India si rifaccia proprio questo modello fallito di Stato teocratico che dopo l’indipendenza dal raj britannico aveva tenuto insieme il Pakistan occidentale e quello orientale. Modello che al momento il Bangladesh, ora democrazia laica, potrebbe riproporre a meno che non resista fermamente alla ri-pakistanizzazione tentata da elementi influenti infiltrati nel regime di Sheikh Hasina Wazed (Primo Ministro del Bangladesh, ndr).

Il modo in cui è stato permesso a Biren Singh di continuare a governare il Manipur, nonostante la promulgazione dell’art. 355 e la consegna su larga scala di armi della polizia ai gruppi antisommossa Meitei, ha rappresentato un fallimento della governance dello Stato, ulteriormente esemplificato dall’ostinata negazione di organizzare una struttura di comando unificata dell’esercito e delle forze paramilitari nazionali. Alcune delle quali, come gli Assam Rifles, sono state falsamente accusate di appoggiare i militanti Kuki solo perché hanno stabilito una tregua.

Le false narrazioni della brigata zafferano e dei gruppi sciovinisti Meitei – che godono del sostegno dei Governi di Delhi e Imphal – sono state mandate in fumo dall’orribile video della moglie di un eroe di guerra che subisce uno stupro e molto altro. Ma nonostante le osservazioni della Corte Suprema, “non c’è stato alcun Governo nel Manipur nei mesi successivi allo scoppio dei disordini”: Biren Singh è stato lasciato in carica. Per coloro che si lamentano della politica del partito del Congresso, ricordiamo che negli anni Novanta il governo di RK Dorendra Singh fu fatto cadere dal suo stesso Premier del Congresso quando non riuscì a controllare gli scontri tra Naga e Kuki.

La precipitazione del Manipur nel caos è preoccupante. Il libero corso che i signori della droga birmani sono riusciti ad assicurarsi nel Manipur, con i loro alleati locali come il cartello di Itocha (che ha il sostegno di potenti politici al potere) e i loro legami con i trafficanti d’armi cinesi, innalzano i livelli di minaccia di conflitto. La mancata risoluzione dell’insurrezione Naga – prima rivolta etnica dell’India – e l’insurrezione dei Meitei pongono le basi per una possibile recrudescenza insurrezionale dei Kuki (vittime di una discriminazione che si è moltiplicata negli ultimi tre mesi), che porta con sé pericolosi segnali, data la progressiva discesa del vicino Myanmar nella guerra civile.

Il Governo Modi si è vantato delle proprie capacità diplomatiche e aspira a svolgere un ruolo nella risoluzione della crisi ucraina, ma non è riuscito ad avere un ruolo significativo nel processo di pace in Myanmar, cosa che ci si aspetterebbe da una potenza regionale come l’India. Il South Block (l’edificio che ospita i maggiori Ministeri e l’ufficio del Primo Ministro, ndr) si gloria di “aspettare e guardare” quel che succede in Myanmar e si affida all’ASEAN (l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico, nda), senza rendersi conto che l’India non ha coltivato i legami che aveva con gli attori della politica pre-golpe (esercito, partiti politici, milizie etniche), che avrebbero potuto aiutarla a svolgere un ruolo importante nel ripristino della democrazia nella Nazione delle Pagode. In assenza di passi concreti, l’India non farà altro che mettere a repentaglio la sua presa sui Paesi del fronte orientale, soprattutto dati i massicci sforzi cinesi per costruire un’influenza in Bangladesh e in Nepal.

Se i cinesi riusciranno a dirottare l’Awami League (partito al potere in Bangladesh, ndr), come chiaramente intendono fare, e a tenere il Congresso nepalese fuori dal Governo, sostenendo l’attuale alleanza maoista-comunista, l’incapacità dell’India di cercare un’alternativa alla Premier bengalese Hasina lontana dal radicalismo islamico, e quella di non riuscire a tenere insieme Sher Bahadur Deuba e Pushpa Kamal Prachanda (leader del Partito del Congresso e di quello comunista, ndr) devono essere considerate il più significativo fallimento di Modi nei rapporti diplomatici con i Paesi vicini. Se il via libera di Hasina al controverso accordo per l’acquisto di energia elettrica con il gruppo indiano Adani e il contro favore di Modi nel procedere con la joint venture con il gruppo petrolifero Beximco, guidato da Salman Rahman, amico di Hasina e notoriamente vicino al Pakistan, sono visti come indicatori di un successo nelle relazioni bilaterali dei due Paesi, si può tranquillamente affermare che Delhi non sta cogliendo nel segno.

Dal Nepal al Bangladesh al Myanmar, con in mezzo il Nordest in fiamme, tutto fa pensare a una crisi in fieri, una nuova sfida alla “questione orientale” indiana, in cui vittimismo e falso trionfalismo potrebbero costare caro.

 


 

* Subir Bhaumik è stato a lungo corrispondente della BBC dall’India nord-orientale, redattore senior del principale gruppo mediatico del Myanmar Mizzima, nonché collaboratore del canale panarabo all-news Al Jazeera. In India scrive per un’ampia gamma di testate

Nella foto in copertina, il Premier del Manipur N. Biren Singh (il secondo da sinistra) © Ankshuman Baruah/Shutterstock.com

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