di Emanuele Giordana
Sembra proprio una saga infinita quella del voto afgano di settimana scorsa. Bontà sua, l’ingegner Hekmatyar – meglio noto per i suoi trascorsi come il “macellaio di Kabul” – ha fatto sapere ieri che riconoscerà i voti espressi col sistema biometrico nella recente elezione del nuovo presidente afgano. Un sistema ancora imperfetto e testato per la prima volta in Afghanistan dove prosegue il conteggio dei voti che, coll’andar del tempo, ha fatto salire l’affluenza alle urne dai 1,9 milioni iniziali ai 2.595.445 e dunque – su 9,6 milioni di aventi diritto – con una percentuale che dal 20% è passata al 26. Da un quinto dei votanti a un quarto. Sempre poco comunque per una giovane democrazia che tra minacce, violenze ma anche disillusione ha visto andare alle urne meno di tre afgani su dieci. In un suo rapporto da Kabul, l’International Crisis Group sintetizza così i prossimi passaggi: “Non si prevede che i voti preliminari ufficiali vengano resi noti prima di metà ottobre. E anche in questo caso, il conteggio dei voti sarà soggetto a certificazione dopo che gli organi elettorali avranno valutato i reclami in merito al processo. Se il conteggio ufficiale non darà a nessun candidato più del 50% dei voti, sarà richiesto un secondo turno. Improbabile che possa svolgersi fino alla primavera, perché il clima invernale rende troppo difficile l’accesso degli elettori ai seggi elettorali”.
Mentre la guerra va avanti senza segnare battute d’arresto col suo bilancio quotidiano di morti, a Kabul ci si chiede cosa succederà quando i due galli principali – Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah (in copertina) – arriveranno all’inevitabile testa a testa, circondati probabilmente dai lai degli altri candidati che già gridano alla frode. La situazione potrebbe diventare esplosiva e riattizzare una sorta di guerra dai connotati geografico-etnici che potrebbe sfociare in violenze col sapore di una guerra civile dentro la guerra civile. Ma sarebbe anche l’occasione per una mediazione che rilanci quel famoso governo a interim che offrirebbe il vantaggio di calmare le acque, garantire ancora il flusso di denaro estero e, soprattutto, di riprendere il negoziato coi talebani arenatosi bruscamente prima del voto dopo l’invito a sorpresa di Trump (rifiutato) di firmare l’accordo negli Usa. Mediazione davvero difficile cui servirebbe la spinta forte degli americani e una buona disposizione d’animo della guerriglia cui l’affossamento degli accordi ha regalato la possibilità per l’ala radicale di mettere in difficoltà le colombe. Non di meno, il fallimento elettorale ha ringalluzzito il movimento dei turbanti secondo cui la nazione si è ormai “convinta che votare sotto l’ombra di un’invasione non abbia senso perché le decisioni finali resteranno comunque nelle mani di chi si è riservato il diritto di prendere decisioni da solo”.
Sul fronte negoziale però le cose potrebbero ricominciano a muoversi. Oggi il negoziatore americano Zalmay Khalilzad e il co-fondatore del movimento e negoziatore talebano Abdul Ghani Baradar saranno entrambi a Islamabad, in Pakistan, anche se per missioni diverse. Un’occasione forse per riprendere il dialogo.