Scioperi e tensioni a non finire continuano a segnare i giorni del Sudan, ancora in attesa di transizione. Per ogni passo in avanti, l’accordo tra giunta militare e l’Associazione dei professionisti sudanesi e le forze della Dichiarazione di libertà e cambiamento, ne subisce almeno tre indietro. Per questo l’opposizione ha convocato uno sciopero di due giorni a partire da oggi.
Ma perché i negoziati tra le due parti non riescono ad andare in porto? Alcune risposte possibili arrivano dal reportage di David Hearst per il Middle East Eye, riportato dalla rivista Internazionale nel numero 1308, uscito il 24 maggio. Una motivazione è legata ai soldi. Per decenni, a causa delle sanzioni economiche e commerciali imposte dagli Stati Uniti al Sudan, l’unico modo di trasferire denaro dentro e fuori dal paese era stato attraverso la Faisal islamic bank of Sudan, di proprietà saudita, e la National bank of Abu Dhabi, degli Emirati. Non può essere un caso quindi, che all’inizio di maggio un gruppo di delegati dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti sia arrivato a Khartoum per incontrare il consiglio militare di transizione del Sudan.
I rapporti tra i tre Paesi sono infatti molto stretti da anni e sono legati, oltre che dalle banche, dalla quantità di rimesse dei tanti espatriati sudanesi che lavorano in Arabia Saudita. Espatri che, dopo la caduta di Al Bashir, sono stati così tanti da far sì che Khartoum la definisse una “migrazione” vera e propria. Secondo il reportage, infatti, le mosse dei due paesi del golfo Persico puntano ad influenzare la transizione del Sudan, così come è stato per Yemen, Egitto, Tunisia e Libia.
“Gli obiettivi – si legge nel reportage – sono due: da un lato, sostenere e armare gli ufficiali dell’esercito che stanno negoziando con i manifestanti; dall’altro, usare i leader emergenti della società civile per eliminare gli islamisti dall’esercito, dal governo, dalla pubblica amministrazione e dai tribunali. Una volta raggiunti questi obiettivi, l’uomo forte che avranno scelto potrà prendere il potere, ricalcando il copione egiziano o quello libico. Quello che vogliono evitare a tutti i costi è che in Sudan muova i primi passi un governo formato da civili e rappresentativo di tutti gli schieramenti politici”. Per ovviare a tutto questo “Il movimento di protesta deve fare in modo che nasca una democrazia rappresentativa di tutte le forze del popolo sudanese. Escluderne una significherebbe ripetere all’infinito gli errori del passato. Altrimenti si ripeterà il copione dell’Egitto. In Sudan potrebbe succedere esattamente la stessa cosa”.
Un altro elemento da non sottovalutare in questa transizione è il passato, oltremodo scomodo, del generale Mohamed Hamdan Dagalo, anche noto con il soprannome di Hemeti. Nella nuova fase politica sudanese Hemeti, comandante del gruppo paramilitare Forze di supporto rapido (Fsr), ha cercato di presentarsi ai manifestanti sudanesi come una brava persona e ha compiuto alcuni gesti per farlo credere: ha dichiarato di aver ricevuto l’ordine di sgomberare la piazza ma di essersi rifiutato, ha arrestato il suo capo, Ahmed Awad Ibn Auf e ha creato il consiglio militare di transizione, di cui è vicepresidente. Con queste mosse Hemeti ha conquistato la fiducia dei manifestanti e sta cercando di usare questa influenza nei negoziati. Hemeti ha però un passato sanguinario, illustrato punto su punto da un esaustivo articolo del professor Eric Reeves, esperto di Sudan, nel suo blog.
Anche senza mandato di cattura della Corte Penale Internazionale, secondo Human rights watch, Hemeti deve rispondere dei crimini commessi dai suoi uomini nella regione del Darfur. Hemeti, era infatti il capo di una forza militare equestre originaria del Janjaweed, contenuta nelle Fsr. La milizia guidata da Hemeti è stata il principale strumento con cui Al Bashir represse la ribellione in Darfur tra il 2003 e il 2008. Nella transizione di oggi, poi, oltre ad Hemeti troviamo il tenente generale Abdel Fattah al-Burhan, il capo militare provvisorio del Sudan, un tempo comandante in Darfur e anch’egli sostenuto da Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti.
La visione che lega il pantano dei negoziati in Sudan ai due Paesi del Golfo è sostenuta anche dal New York Times. “Le mosse – si legge – concertate sono tipiche della politica guidata dai sauditi nella regione, che favorisce gli uomini forti sostenuti dai militari per le rivolte popolari e i movimenti democratici. In Sudan, tali manovre hanno generato profondo sospetto tra i manifestanti che temono che la loro rivoluzione sarà ostacolata”.
Queste mosse consistono anche nella promessa di un pacchetto di aiuti da 3 miliardi di dollari, tra cui un’iniezione di contante di 500milioni di dollari e trasferimenti di cibo, carburante e medicinali a basso costo. Il timore, condiviso da più media ed osservatori, è che ci sia l’intenzione di trasformare la rivoluzione sudanese nel terreno di un conflitto per procura tra due fronti contrapposti: da un lato, Arabia Saudita ed Emirati, che sostengono i generali e le forze laiche sudanesi, e dall’altro la Turchia e il Qatar, che appoggiano gli islamisti.
(di Red/ Al.Pi.)