di Emanuele Giordana
Una grande preoccupazione attraversa il cuore dei tanti afgani che in queste ore vedono avvicinarsi l’orda talebana opposta a un Governo che non sembra aver un piano preciso né su come condurre la guerra né su come gestire il negoziato di pace. Non c’è purtroppo da stupirsi visto che i maestri, del governo e dell’esercito afgano, sono degli strateghi che la guerra l’hanno persa così come hanno perso la scommessa della pace: con un negoziato ambiguo e frettoloso, premessa – per come è stato condotto – di una fragilità dell’esecutivo di Kabul che la pax americana con la guerriglia in turbante ha solo rafforzato. Ma al di là di come verrà condotta la guerra, che ora riprende con nefasti raid aerei e un aumento forsennato di vittime civili e sfollati, non è mai inopportuno perdere di vista la pace, anche se questa appare ora un miraggio lontano o, per alcuni, un’impossibile realtà. Non è solo questione di ottimismo ma di responsabilità. Una responsabilità che il governo dell’Italia, quale ne sia il colore, deve continuare ad assumersi.
In queste ore l’emergenza umanitaria in Afghanistan ci dice che sono scarse le forze per farvi fronte. Non basteranno le iniziative dell’Onu, pur sempre benvenute, né la testardaggine di Ong che ad ogni costo sono rimaste – Emergency, Pangea, Nove, Intersos, Msf solo per citarne alcune – mentre gli eserciti (il nostro costato in vent’anni 8,5 miliardi di euro) si ritiravano in buon ordine, rapidi e invisibili come vogliono i manuali. La fragile struttura dell’associazionismo afgano, le reti di donne, i sindacati, le ong locali che assistono anziani e bambini, sono già state lasciate al loro destino da tempo, bloccate dal divieto italiano ed europeo di dar fondi diretti a soggetti locali che non siano il governo, sia da una solidarietà internazionale che si è rivolta altrove: alla Siria, alla Libia, al Covid.
L’emergenza però è adesso e la responsabilità, quali che siano i nuovi fronti aperti, rimane anche se l’ultimo soldato è partito. La responsabilità e l’emergenza richiedono dunque un impegno preciso soprattutto da chi la guerra ha condotto per vent’anni, accompagnata dalla promessa, prima e dopo il ritiro, che il mondo, l’Europa, l’Italia non avrebbero abbandonato l’Afghanistan. Se dunque quelle parole non sono vuota retorica e se la tragedia di queste ore non resta una buona scusa per non far nulla – in nome del ritornello che tanto in Afghanistan tutto è inutile – è l’ora di passare dalle parole ai fatti. Questi fatti potrebbero riguardare parte dei 21 milioni destinati all’Afghanistan nel decreto missioni testé approvato in parlamento. Decreto in cui si dice che “è indispensabile un approccio multidimensionale che coinvolga attivamente la società civile nei processi di pace, includendo donne e giovani come chiedono le risoluzioni delle Nazioni Unite”. Poiché questo rafforzamento passa evidentemente per un sostegno diretto alle tante reti sorte in questi anni in Afghanistan, sarebbe giusto, sensato e indispensabile che parte di questi fondi andassero a sostenere le loro attività, che potrebbero agire sull’emergenza nel breve periodo ma soprattutto resistere sul lungo, che vincano i Talebani, i signori della guerra o il governo di Ashraf Ghani. Per far questo vanno rafforzate anche le attività dei tanti soggetti italiani rimasti in Afghanistan e vanno inviati altri a intervenire a fianco di una società civile che è il vero baluardo che tiene in piedi la bandiera della pace, della solidarietà, dei diritti, dell’empowerment femminile, dell’accesso ai servizi. Un governo può farli diventare legge ma solo una società civile forte può sorvegliare che si trasformino in realtà.
Questo articolo è uscito stamane su ilmanifesto e su Lettera22