Lesbo, sopravvivere nell’emergenza

Un incendio prima e un'alluvione poi hanno reso la vita dei profughi a Lesbo ancora più infernale. L'intervista a Martina Martelloni di Intersos

di Alice Pistolesi

Nella notte tra l’8 e il 9 settembre 2020 un incendio ha distrutto il campo profughi di Moria, nell’isola di Lesbo e ha costretto circa 12mila persone in strada. Un mese dopo una nuova sciagura. Forti piogge torrenziali si sono abbattute sull’isola allagando il nuovo campo costruito dal governo greco con il supporto di Unhcr, che al momento ospita circa 8mila persone. La ong Intersos è intervenuta da subito a Lesbo, avviando diverse distribuzioni per aiutare le persone più vulnerabili, in particolare donne e minori. Per capire cosa sta succedendo in una delle situazioni più drammatiche d’Europa abbiamo rivolto alcune domande a Martina Martelloni, content manager di Intersos.

Che situazione hai trovato?

Sono arrivata a Lescbo pochi giorni dopo l’incendio e il mio primo ricordo è di grande caos e estrema difficoltà nella gestione di questa emergenza. Il Governo si è dimostrato non in grado di coordinare gli interventi, dopo che l’80% del campo era andato a fuoco. Migliaia di persone hanno provato a raggiungere Mitilene per procurarsi qualcosa da mangiare, visto che dopo il rogo erano rimaste davvero senza niente. Le forze dell’ordine hanno bloccato questo esodo e le persone sono rimaste bloccate in un lembo di strada di 3 chilometri. Alcuni sono riusciti a svincolarsi attraverso le campagne ma è stato il caos. La tensione era davvero altissima, tanto che a volte i profughi rifiutavano il cibo fornito dal governo per protesta.

Un altro ricordo sono state le file lunghissime per ricevere gli aiuti forniti dalla varie organizzazioni. Tutto questo con il rischio covid, che nei giorni precedenti aveva alimentato altre tensioni, dopo che 35 profughi erano risultati positivi al tampone. Questo caos generalizzato ha reso ancora più difficile il lavoro delle organizzazioni umanitarie, che spesso non riuscivano a superare il blocco della polizia e a intervenire in maniera tempestiva.

Anche per questa militarizzazione il campo era definito di detenzione.

Nel vecchio campo di Moria la stampa non poteva accedere e solo alcune organizzazioni avevano il permesso di entrare. La situazione era ed è davvero pesante, spesso sono state organizzate manifestazioni e proteste perché molti si trovano a Moria da 2 o 3 anni in attesa di conoscere il proprio destino. Ad alcuni è stata fornita una green paper, ovvero un certificato che permette di girare sul territorio greco. Sfruttare questa possibilità è però davvero difficile. A Moria c’è una grande percentuale di famiglie provenienti dall’Afghanistan e spostarsi in gruppo, senza nessun mezzo, è complicato per non dire impossibile.

Nel nuovo campo è cambiato qualcosa?

Il nuovo campo è stato allestito in tre giorni con le forti pressioni dell’Unione Europea a il supporto di Unhcr. Ora ospita ottomila persone ma le condizioni sono forse peggiori delle precedenti. Non c’è un sistema di drenaggio, per questo con le piogge dei giorni scorsi le tende si sono allagate. Il numero dei servizi igienici è esiguo e il cibo distribuito dalle autorità scarso.

Cosa dovremmo fare, cosa dovrebbe fare l’Europa?

Secondo Interos, così come altre organizzazioni umanitarie, la soluzione non è il campo. Le persone devono essere ricollocate a livello europeo, così come previsto dall’accordo del 2016. Creare l’ennesimo campo in una condizione ormai deteriorata come quella di Lesbo, dimostra che non c’è la volontà di far vivere persone che avrebbero diritto all’asilo politico in modo sicuro.

Qual è il racconto che ti ha più colpito?

Ho incontrato moltissime donne con una gran voglia di parlare e raccontarsi. Rispetto ad altre situazioni in cui ho riscontrato pudore, vergogna o semplicemente ritrosia a parlare con giornalisti e operatori, questa volta ho trovato una grande apertura. Tutte chiedevano di mostrare all’Europa cosa stavano vivendo. Ho conosciuto una ragazza scappata dall’Afghanistan con il marito e la figlia di tre anni che mi ha confessato quanto si senta in colpa per aver portato la figlia a vivere questa situazione. Un’altra ragazza, arrivata con la famiglia, mi raccontava della depressione della madre e del fratello che durante l’incendio è fuggito per intraprendere la rotta balcanica e di cui da allora non si hanno più notizie.

Intersos si occupa, tra le altre cose, di fornire ‘kit dignità’ contenenti prodotti specifici per le esigenze femminili come assorbenti, sapone intimo e anche torce frontali e un fischietto da poter usare in contesti di esposizione al rischio di violenza. Perché sono così importanti?

Le donne molto esposte agli abusi. Il campo è sovraffollato, senza illuminazione. Le conseguenze psicologiche di chi abita in queste condizioni per anni sono di qualsiasi tipo. Il rischio di violenze è molto più alto se le persone vivono in questo modo. Tutto è portato all’estremo.

 

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