Dossier/ Iran, Afghanistan e Golfo: i diritti violati delle donne

di Silvia Carradori e Alice Pistolesi

Nei Paesi del Golfo Persico, in Iran e in Afghanistan le discriminazioni nei confronti delle donne sono diffuse e, in vari casi, normate dalla stessa legislazione vigente. Secondo il Global Gender Gap Index, un indice nato dal Forum economico mondiale nel 2006, che fornisce un quadro sul divario di genere in tutto il Mondo, nel 2021 l’Afghanistan si trovava all’ultimo posto in classifica (146), l’Iran al 143esimo. Non bene anche i tre Paesi del Golfo Persico che analizziamo in questo dossier: il Regno del Bahrein si piazza 131esimo, al 133esimo posto il Qatar e al 127esimo l’Arabia Saudita.

Questo nonostante dei Paesi del Golfo si sia parlato molto recentemente grazie allo sport, con la Formula Uno e i Mondiali di calcio inaugurati il 20 novembre 2022. I magnati di Qatar, Emirati Arabi, Arabia Saudita, Bahrein, infatti, hanno finora investito oltre cinque miliardi di dollari sugli eventi sportivi di livello mondiale.

Le donne in Arabia Saudita e Iran, stanno cercando di superare i limiti politici e sociali, da anni. Secondo il Middle East Institute due decenni fa le donne costituivano circa il 60% degli studenti universitari iraniani, mentre nel 2021 questo numero era sceso a meno del 50%. Un decennio fa, le donne saudite rappresentavano il 58% della popolazione universitaria, mentre il numero dello scorso anno era fermo al 55,8%. Secondo i dati della Banca Mondiale, le donne costituiscono solo il 15,8% della forza lavoro in Arabia Saudita e il 19,5% in Iran. In comune nei Paesi che passiamo in rassegna in questo dossier c’è poi la repressione delle attiviste. La retorica che si usa per accusarle è spesso la stessa: per anni il governo iraniano ha imputato alle attiviste per i diritti delle donne di cospirare con “nemici stranieri”, mentre i sauditi affermano che queste stanno “eseguendo” programmi stranieri, finalizzati a prendere di mira il Regno.

E ancora: in tutto l’Afghanistan, dopo la ripresa del potere dei talebani nel 2021, le donne hanno reagito alla repressione con un’ondata di proteste, alle quali si è risposto con intimidazioni, violenza, arresti arbitrari, sparizioni forzate e torture fisiche e psicologiche. Le donne arrestate per “corruzione morale” sono sottoposte a isolamento, pestaggi e altre forme di tortura e sono detenute in condizioni inumane, in celle sovraffollate e con poco accesso al cibo, all’acqua e, nei mesi invernali, al riscaldamento.

*Le foto sono state scattate da Camilla Caparrini in Iran nel 2017

La protesta iraniana

In Iran non accenna a fermarsi la protesta iniziata nel settembre 2022 dopo la morte di Mahsa Amini, deceduta a Teheran, dopo essere stata arrestata dalla polizia perché non portava il velo in modo corretto. La violenta repressione delle proteste ha provocato, al 10 novembre 2022, secondo organismi umanitari che operano fuori dal Paese, la morte di oltre 300 persone.

Tra le richieste della piazza, popolata da donne di tutte le età ma anche da molti uomini, c’è l’abolizione della “polizia della sicurezza morale”. Il corpo di sicurezza è stato fondato all’inizio del 2000 come un organo delle forze dell’ordine per pattugliare le strade e assicurarsi che l’aspetto delle donne sia coerente con i principi islamici e le regole ufficiali per il codice di abbigliamento islamico. Non era il primo caso per la repubblica Islamica, che aveva già attivato in precedenza le cosiddette pattuglie di guida per salvaguardare ‘l’integrità morale delle persone’. Subito dopo la rivoluzione nel 1979, questi gruppi hanno diffuso il terrore per le strade. Al principio erano costituiti dai Comitati Rivoluzionari Popolari Iraniani e in seguito furono raggiunti dalle Guardie Rivoluzionarie iraniane e dalle forze della milizia di Basij.

Quella iniziata nel 2022 non è la prima protesta delle donne iraniane, che sono state determinanti nei moti studenteschi del 1999, nel Movimento Verde, in quello Ragazze della Via Enghelab del 2018 e in quelle del Aban di Sangue del 2019. Il movimento femminile in Iran ha usato, dal 1979, tutte le occasioni per ottenere o modificare i diritti a favore delle donne. Negli anni ha ottenuto alcune riforme legislative ma restano ancora troppi i divieti. Quello sull’hijab risale al 1984, quando l’Assemblea consultiva islamica dell’Iran approvò la legge penale islamica che sancì, per chiunque non avesse indossato l’hijab nelle strade e nei luoghi pubblici, una condanna a 72 frustate. La condanna si è negli anni evoluta anche in altre modalità, assumendo forma di multa, di detenzione per brevi periodi o, più recentemente, di lezioni di ri-educazione.

Oltre all’obbligo del velo i divieti ancora attivi sono molti, tra cui cantare da soli e non per forza in gruppo, usare la bicicletta o avere la patente per guidare la moto, avere il permesso per andare allo stadio a vedere una partita di calcio, oppure di abbandonare il Paese senza l’autorizzazione del marito.

Afghanistan: repressione e resistenza

Obbligo di indossare hijab o burka, chiusura delle scuole secondarie, tutoraggio maschile, accesso ridotto all’università e, da pochi giorni, divieto di accesso a parchi e giardini. Questa è la vita delle donne afghane da quando nell’agosto 2021, dopo il ritiro delle forze Nato, è stato restaurato il regime talebano. La promessa di mantenere alta l’attenzione verso la questione femminile in Afghanistan sembra essere scomparsa ultimamente fra residui di pandemia, la terribile guerra in Ucraina e il disastroso futuro climatico che attende il mondo.

Le conseguenze sono quelle che vediamo adesso: un costante incremento della restrizione delle libertà personali delle donne. Il regime, che nel momento dell’insediamento aveva cercato di mostrare una faccia moderata, sta portando avanti il proprio progetto a piccoli passi, ma costanti. Novembre è stato un mese particolarmente duro, non solo per le ulteriori restrizioni all’accesso allo spazio pubblico, ma anche perché sono avvenuti molti arresti di importanti attiviste per i diritti delle donne. Secondo Amnesty International, nelle prime due settimane di novembre 2022 sono state arrestate Zarifa Yaqoobi del Movimento delle donne afghane per l’uguaglianza, Farhat Popalzai, giovane attivista e co-fondatrice del Movimento spontaneo delle donne afghane, e Humaira Yusuf, difensora dei diritti umani e una delle più attive nelle proteste in Afghanistan.

Di questi giorni è anche la preoccupazione della salute della popolazione femminile afghana, come riportato nel recente articolo di Claire Parker nel The Washington Post: da una parte, i talebani obbligano le pazienti ad essere curate solo da dottoresse e infermiere, ma, dall’altra, ostacolano in ogni modo la formazione di personale medico femminile. Le donne che studiano medicina ormai possono solo diventare ginecologhe e ostetriche, non possono fare turni di notte, né collaborare con uomini, anche se questi sono stati loro professori e mentori per anni. La situazione è drammatica e, nonostante il tentativo di mostrare una certa moderazione al mondo cosiddetto occidentale, l’obiettivo del regime talebano sembra chiaro.

Tuttavia, la speranza rimane alta, non solo perché alcuni organismi internazionali continuano a monitorare e ad interessarsi, ma anche e soprattutto perché le donne afghane, dentro e fuori il Paese, continuano la loro resistenza quotidiana. Una resistenza che nelle ultime settimane ha ritrovato un nuovo vigore grazie anche all’ondata di proteste contro il vicino regime iraniano.

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