Quel giorno alla Moneda con mio zio Salvador

Maria Inés Bussi racconta dell’ultima volta che vide Allende, tre giorni prima del golpe

di Gianni Beretta

Quella mattina andai da lui a La Moneda a chiedergli un’arma, perché ero malvista e mi sentivo insicura nel quartiere della borghesia capitolina dove vivevo; mi rispose che non ne aveva e che sarebbe stato forse meglio che tornassi a stare da loro. Non l’avevo mai visto così: teso, emaciato, tremendamente solo…”.

Maria Inés Bussi ci sta raccontando dell’ultima volta che vide suo zio, Salvador Allende, tre giorni prima del golpe. Più che un’intervista la nostra è una conversazione aperta con la nipote del Presidente cileno: “cinquant’anni dopo, sottolinea lei, il suo assassinio”. Perché fin dal primo momento Inés non ha mai dubitato che fosse stato ammazzato. “Il generale Palacios, a capo dell’assalto a La Moneda, era apparso in tv con una mano bendata affermando che lo doveva a colui che non aveva voluto arrendersi; con suo figlio che nei giorni successivi ostentava al polso l’orologio di mio zio. Successivamente fu dimostrato che Allende era stato ucciso da due proiettili di armi diverse”.

L’abbiamo raggiunta a Tzepotlan, poco lontano da Città del Messico, dove dopo i primi tempi a Parigi, ha passato la maggior parte del suo esilio da giornalista freelance (oltre che a Roma e Ginevra). Anche se dopo la fine della dittatura militar/neoliberista di Augusto Pinochet non ha mai mancato di trascorrere ogni anno qualche mese dai suoi familiari in Cile. Ma stavolta, per questo tragico anniversario, non se l’è sentita proprio di andarci. Tanto più dopo aver perso nel dicembre scorso la sorella Ana Maria. “Si stava recuperando da un cancro quando è arrivata a settembre la sconfitta del plebiscito di riforma della Costituzione; da quel momento lei, che si era impegnata fin dal primo momento in quel progetto, si è lasciata morire”.

Un trauma per la nazione intera che non è riuscita a scrollarsi di dosso la “magna carta” del generale tiranno, riducendo oggi il paese in una situazione “tossica”, come l’ha definita recentemente la due volte presidente (socialista) Michel Bachelet. “Il pur volenteroso Gabriel Boric, continua Inés, privo di una maggioranza in Parlamento che gli avesse permesso di portare a termine una riforma fiscale oltre che dei sistemi previdenziale e sanitario (in mano ai privati), ha commesso l’ingenuità di alimentare l’idea che questo voto fosse un referendum sul suo governo. E la destra fascista ne ha approfittato, tanto più per il fatto che con l’inflazione i prezzi erano andati alle stelle mentre col crescere della criminalità (casuale o indotta?) la gente in Cile si sente sempre meno sicura”.

Se a questo si aggiunge poi un’educazione superiore tuttora a pagamento, il fenomeno dell’immigrazione incontrollata dal nord e un po’ di inesorabile corruzione perché sei al governo, “il risultato è che nessuno crede più nei partiti; men che meno di sinistra, che nella migliore delle ipotesi vengono definiti progressisti, se non liquidi e dilaniati dalle loro divisioni interne”. Come a dire (ma vale un po’ per tutto l’emisfero occidentale cosiddetto “democratico) che non è vero che destra e sinistra non esistano più. Perché almeno la destra è rimasta, eccome! “Tanto che quella dei pinochetisti se ha embalentonado” (si è ringalluzzita), come si dice laggiù.

Maria Inés interpreta così il profondo senso di frustrazione rispetto alle aspettative generate dalle mobilitazioni popolari dell’ottobre 2019. “È che Boric si è fortemente indebolito insieme alle sue stesse istituzioni; con una destra sempre più insolente che controlla i media e che, per garantire i propri interessi economici e finanziari, si prepara per una revisione costituzionale a propria immagine e somiglianza”. Ma quello che è ancora più grave è che “alcuni dell’entourage di Boric, si sono persino affannati a mistificare la verità storica del colpo di stato, oltre che cercare di sbiancare l’immagine di figure dell’oggi nostalgiche degli eventi di allora”.

Quell’11 settembre 1973 le figlie di Allende e sua moglie Hortensia Bussi furono deportate. Mentre la 26enne Maria Inés: “mi sono salvata perché quando si seppe che la marina militare si era sollevata a Valparaiso, due amiche mi vennero a prendere a casa e mi portarono da loro; in quegli anni lavoravo al Centro Latinoamericano di Demografia dell’Onu di Santiago dove, dopo casa mia, l’esercito venne subito a cercarmi; ma la responsabile mi aveva già rifugiata nell’ambasciata di Francia; dove restai un paio di mesi per poi riparare a Parigi. Il problema è che oltre ad essere la nipote del Presidente, il mio compagno era un militante del Mir (Movimento della Sinistra Rivoluzionaria) col quale pure io collaboravo; tanto da fare talvolta da autista al suo leader Miguel Enriquez perché (bionda, con gli occhi azzurri e sembianze borghesi) non destavo sospetti per le strade della capitale.

A questo punto Maria Inés comincia a parlarci di lui, di Chicho (Cicio), come chiamavano Allende fin da piccolo perché non gli riusciva a lui stesso di pronunciare il suo diminuitivo Salvadorchito. “Vivevo con i miei nel Sud del Cile quando vinsi una borsa di studio di un anno per un istituto di Denver in Colorado; fui l’unica a scegliere di essere ospite di una famiglia di colore, tanto che subii più volte le intimidazioni di elementi del Ku klux Klan locale. Di questo mio zio andava orgoglioso, tanto che al mio ritorno, visto che volevo iscrivermi a sociologia a Santiago, mi propose di andare a stare a casa sua. Condividevo la stanza con sua figlia Beatriz, Tati (morta suicida a L’Avana nel 1977). E quando la sera tardi, da senatore, tornava a casa e si sedeva al tavolo in mezzo a noi due che studiavamo sentenziava: la più grande tragedia per un genitore è avere dei figli che non hanno voglia di studiare. Quando poi tutte le sue figlie si sposarono mi disse che ero rimasta la sua unica figlia. Tenero quanto severo, non l’ho mai visto arrabbiarsi. Mi portava spesso al cinema; era un appassionato di James Bond. Tanto che quando una volta gli raccontai che avevo visto scaricare armi da aerei che provenivano dagli Stati Uniti, lavorando io come assistente bilingue in una ditta d’importazioni, non mi credette e mi liquidò rimproverandosi di avermi portato a vedere troppi film di Bond. Non la prese bene quando me ne andai per sposarmi prima ancora di aver preso la laurea. Poi arrivò mia figlia”.

Maria Inés Bussi tornò in Cile dall’esilio nel marzo 1987 grazie alla sua inclusione in una lista di cento rifugiati da rimpatriare, presentata dal Vaticano alla vigilia della visita di Giovanni Paolo II in Cile. Quella della famosa foto/trappola ordita dal dittatore Augusto Pinochet per apparire al fianco di papa Wojtyla sul balcone de La Moneda. “Erano passati tredici anni, tre mesi e 18 giorni: una vera e propria forma di interminabile tortura; camminavo per le strade e mi sembrava di non avere la pelle, infreddolita da quel vento che mi entrava dolorosamente fin nelle viscere. Nessuno di quelli del Mir era sopravvissuto, compreso il mio compagno, ucciso in uno scontro a fuoco il 15 ottobre 1975”. Rimasi solo tre mesi e me ne ritornai in Messico. Dove già l’anno dopo che il Chicho si era immolato, avevo conosciuto Gabriel Garcia Marquez. Al quale, nonostante le sue gentili insistenze, non sono mai riuscita di spiaccicare una sola parola della mia storia”.

Maria Inés, cui sarebbe piaciuto celebrare in un clima diverso questa ricorrenza, continua a seguire in tempo reale ogni accadimento nel suo lontano Cile. Ma “ora preferisco vivere una dimensione primitiva dell’esistenza quotidiana; nel mio orto, con le mie anatre e le mie galline…”

In copertina: Salvador Allende Nel testo: M.I. Bussi in uno scatto dal suo profilo Linkedin

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