di Nino Sergi
Abbiamo assistito inorriditi alla barbarie della “più grande strage di civili in un solo giorno dai tempi dell’Olocausto”, come è stata definita dal presidente israeliano Isaac Herzog. Un atto di terrorismo jihadista che non si è fermato neppure dinnanzi a bambini e neonati. Numeri impressionanti di morti, feriti, prigionieri prelevati come bestie e potenziali vittime sacrificali. Questo terrorismo non ha nulla a che vedere con le aspirazioni e il diritto dei palestinesi ad una patria con un proprio territorio; è solo strumento del fanatismo religioso e dell’odio di Hamas per il popolo ebraico e per lo Stato di Israele, di cui continua a negare l’esistenza, anche contribuendo al disegno jihadista di destabilizzazione dell’area per poterlo attaccare e distruggere.
Dal 7 ottobre siamo tutti israeliani. Giustamente. Di fronte ai bombardamenti, le aggressioni e i crimini di Hamas contro civili inermi, la condanna, il dolore, la vicinanza sono unanimi e convinti. E ci si augura che i prigionieri abbiano un trattamento umano e possano avere rapido successo le trattative per la loro liberazione. Durissima è stata annunciata la prevedibile reazione israeliana contro Hamas e le forze jihadiste, sia per rispondere alla brutale aggressione che per impedire il lancio di nuovi missili.
Si spera che tale reazione non sia cieca, indiscriminata, sproporzionata, mirata a colpire anche la popolazione civile della di Gaza – circa 2,5 milioni di persone, per più di un terzo bambini e adolescenti – che da due decenni si trova ingabbiata, ammassata, malnutrita, in pessime condizioni economiche, sociali, abitative in una specie di campo profughi. Una striscia semidesertica lunga 40 chilometri e larga tra 5 e 10, da cui non è possibile uscire. Gli abitanti di Gaza sono ostaggi e vittime di Hamas: che non diventino ora ostaggi e vittime di Israele.
Se invece, come sta già avvenendo, fosse proprio l’intera popolazione ad essere colpita con i bombardamenti, il blocco delle forniture di cibo, acqua ed elettricità e senza vie di fuga, allora siamo tutti anche palestinesi, per le stesse ragioni e con lo stesso dolore e la stessa vicinanza che esprimiamo alle comunità israeliane colpite. Già troppi sono ormai i morti, i feriti le distruzioni e le sofferenze in entrambe le parti. Che non si usi l’odio per combattere l’odio: potrebbe ampliare su scala regionale un conflitto di cui nessuno può prevedere gli esiti e le conseguenze, anche sulla stessa Europa.
La disperazione contribuisce ad alimentare jihadismi, dovremmo averlo imparato. Se Hamas va severamente condannata e punita, non è il popolo palestinese che deve esserlo, sia uccidendolo in modo indiscriminato, sia costringendolo alla fuga verso l’ignoto e soprattutto verso nuova disperazione. Scongiurare una catastrofe umanitaria a Gaza è quindi indispensabile. Assicurare cibo, acqua, elettricità ma anche cure mediche, protezione dei più vulnerabili, educazione, istruzione significa anche ridurre lo strapotere di Hamas e il suo dominio ricattatorio sui vari strati della popolazione. Cessi subito l’assedio quindi e si continui a sostenere le organizzazioni umanitarie internazionali presenti a Gaza a diretto contatto con le comunità più bisognose. Sia attentamente misurata la violenza della reazione e sia favorita l’azione diplomatica, da qualsiasi parte venga.
I due popoli sono stati traditi dalla politica. Sia in Israele, nonostante il valore della sua democrazia, sia nei territori palestinesi dominati da corruzione, ignoranza, ignavia in Cisgiordania e da fanatismo jihadista a Gaza. Le due comunità, israeliana e palestinese, stanno continuando a distruggersi. Entrambe le loro istituzioni hanno molto da rimproverarsi. Esiste però un forte senso di prevaricazione, perdita della dignità umana, mancanza di speranza nella comunità palestinese: da troppo tempo umiliata, depredata a dismisura di propri territori a beneficio di coloni israeliani che li occupano con insediamenti illegali, condannati dall’ONU. Si tratta di occupazioni la cui ingiustizia è stata purtroppo tollerata dai paesi europei e dall’Occidente. Il diritto di Israele e delle sue istituzioni democratiche di esistere in pace può trovare piena attuazione solo se ai propri confini non prevarranno i sentimenti di odio e di rivalsa e l’uso quotidiano delle armi. La sua sicurezza non potrà mai dipendere solo dalla sua forza e supremazia militare.
Israeliani e Palestinesi sollecitano la comunità internazionale da ben 75 anni. In tanti decenni non hanno trovato il modo per convivere in pace. Torti e ragioni si sono intrecciati. L’assassinio di Rabin nel 1995 ha messo fine al processo di pace firmato due anni prima dopo lunghi negoziati ad Oslo. E da allora sono tante le occasioni sprecate, con il rifiuto di riconoscersi e di riconoscere i reciproci diritti e le reciproche giuste convenienze e con tante influenze esterne basate su egoistici vantaggi nazionali e interessi di potenza. Si è preferita spesso la comoda via della miopia, della dimenticanza, dell’opportunismo politico e della convenienza. Mentre occorrerebbe avere presenti la serie di ragioni e di torti di entrambe le parti, senza pregiudizi, semplificazioni, falsificazioni. La politica, a livello internazionale, riprenda la dignità che dovrebbe esserle propria.
La questione palestinese non può essere lasciata nelle mani di fanatismi politici, estremismi e terrorismi. Va nuovamente assunta come prioritaria dalla comunità internazionale e in particolare da quell’Occidente che considera pilastri fondamentali la dignità e libertà di ogni essere umano, lo stato di diritto, la democrazia, il pluralismo, il rispetto dei diritti umani. La diplomazia degli accordi di Abramo è da rafforzare per potere definire un contesto di relazioni pacifiche nella regione. Ma serve un quadro internazionale più complessivo, saldo e definitivo, che richiede anche un forte impegno e una garanzia dell’Occidente, a cui Israele fa riferimento e che rimane ancora una garanzia per l’intera regione: senza ostentazioni di superiorità ma spinti dai nostri valori.
Occorre osare, immaginare e volere un diverso futuro, a dispetto di ogni evidenza: una soluzione duratura, concordata, garantita e sostenuta a livello internazionale. Oggi appare impossibile ma tutti sanno che è la via da perseguire. Le guerre, l’uso della forza, le repressioni non risolvono mai i problemi a cui si vorrebbe porre fine ma solo li spostano nel tempo fino alla loro ripresentazione in tempi e forme diverse, spesso aggravati. Dimostrano sempre la sconfitta della politica, talvolta per sottovalutazione, distrazione, incapacità, supponenza, errate scelte. Trent’anni di conflitti armati, spesso nel cuore degli stessi nel tentativo di proteggere vittime civili inermi, me l’hanno confermato.
Per saperne di più, leggi la nostra scheda conflitto Israele/Palestina
In copertina, un’immagine ispirata ad una delle opere simbolo di Banksy (Artem Rumyantsev/Shutterstock.com)