Un Recovery Plan per le Forze Armate

Il piano del governo per dare "piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento militare". Il commento del direttore dell'Atlante Raffaele Crocco

Oggi la Rete Italiana Pace e Disarmo ha reso noto che una parte dei fondi del Recovery Plan verrebbe destinata per rinnovare la capacità e i sistemi d‘arma a disposizione dello strumento militare. Un tentativo di greenwashing – di lavaggio verde – dell’industria delle armi, secondo quanto riporta Ripd il cui documento che entra nel merito del piano si può leggere sul sito dell’associazione che monitora da anni il “sistema d’armi Paese”. Il commento dell’Atlante

di Raffaele Crocco

No scusate, davvero? Davvero siamo sorpresi che una parte dei fondi del Recovery Plan sia destinata a rinnovare la capacità e i sistemi d’arma a disposizione delle nostre Forze Armate? Davvero troviamo fuori luogo che la Camera dei Deputati – quella eletta da ognuno di noi nel 2018 – raccomandi di “incrementare, considerata la centralità del quadrante mediterraneo, la capacità militare dando piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento militare, promuovendo l’attività di ricerca e di sviluppo delle nuove tecnologie e dei materiali, anche in favore degli obiettivi che favoriscano la transizione ecologica, contribuendo al necessario sostegno dello strategico settore industriale e al mantenimento di adeguati livelli occupazionali nel comparto”?

Davvero pensiamo insolito che il Senato – quello eletto da ognuno di noi – sostenga che serve promuovere una “visione organica del settore della Difesa, in grado di dialogare con la filiera industriale coinvolta, in un’ottica di collaborazione con le realtà industriali nazionali, think tank e centri di ricerca”?

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Scusate, ma trovo invece che tutto questo sia la cosa più logica e normale. E’ perfettamente in linea con la politica di questo Paese, coerente con l’Italia e gli Italiani di questo millennio. Faccio un piccolo riassunto, giusto per capirci. La nostra principale industria di armi si chiama Leonardo. Ha un portafoglio d’ordini – oggi – di 35miliardi di euro e nel 2020 ha avuto ricavi per 13miliardi. Impiega 49mila esseri umani a fabbricare armi avveniristiche, sistemi d’arma e altro. Il particolare interessante, è che l’azionista di maggioranza siamo noi, tutti noi. A rappresentarci è il ministero dell’Economia e delle Finanze, con il 30% del capitale. Quindi noi, come cittadini di questo Stato, siamo azionisti di maggioranza di una delle più grandi industrie d’armi del Mondo. Davvero è così strano che lo Stato con il Recovery Plan voglia finanziare se stesso?

Altra nota: in questi anni turbolenti, abbiamo venduto armi e navi all’Egitto che uccide gli oppositori e che ha ammazzato un nostro concittadino – Giulio Regeni – senza mai far luce su chi, perché, come. In nome del business, abbiamo lasciato perdere. Sempre in questi tempi, abbiamo venduto armi al neo costruttore dell’impero ottomano, Erdogan, che le ha usate per massacrare i curdi, che avevano combattuto per nostro conto l’Isis. Abbiamo ceduto bombe alla rinascimentale Arabia Saudita che piace a Renzi, che le ha usate per bombardare bambini, donne e anziani dello Yemen. Abbiamo regalato motovedette utili ad affondare barconi carichi di esseri umani alla Libia guidata da predoni, senza battere ciglio.

In questo quadro di allegro mercato, che vede le nostre Forze Armate spesso nel ruolo di “vetrina sul campo” dell’efficienza dei nostri prodotti, è evidente che per il Sistema Italia l’industria delle armi è fondamentale e va non solo salvaguardata, ma rilanciata. Il Pil, in fondo, cresce anche così: un fucile venduto lì, un elicottero là e via… è fatta. Il Pil torna a volare.

Intanto, giusto per rafforzare la consapevolezza dei cittadini, il 1 gennaio 2021, c’erano almeno 7.500 uomini e donne in armi del nostro Esercito impegnate in 39 missioni in 24 Paesi. Pensate: quando eravamo in guerra – perché di guerra si parla – in Afghanistan, spendevamo ogni giorno 500mila euro per la logistica del contingente. Solo per la logistica. Sono 182miioni e 500mila euro all’anno. Più o meno 3miliardi e mezzo di euro per l’intera e quasi ventennale durata della missione (ancora in essere). Ora, giusto per dire: con quei soldi avremmo potuto – sempre come Paese, dico – finanziare la riconversione delle industrie che producono armi. Avremmo garantito il lavoro, avremmo ammodernato il nostro sistema industriale e saremmo stati coerenti con quella immagine di “Paese per la pace” che ci piace tanto.

Grazie al Recovery Plan, riscopriamo di essere un Paese che fa gli affari con la guerra. Ci rendiamo conto di trovarci, in fondo, a nostro agio con la guerra, come è stato per buona parte della nostra storia unitaria. Ci accorgiamo che quel “ripudio della guerra” che predichiamo nella Costituzione forse vale per noi, non per gli altri. Riconvertire le nostre industrie e la nostra politica dovrebbe essere al primo punto di ogni politica di rilancio. Perché far dipendere il Paese dalle armi significa che ognuno di noi, ogni cittadino, sarà sempre e comunque dalla parte di chi la guerra la vuole, la genera, la alimenta. Nel Piano nazionale di Ripresa e Resilienza, il PNRR che è la base di ciò che il Governo vede come futuro del Paese dopo la pandemia, viene riproposta la solita Italia, abitata da italiani distratti e poco interessati. Dobbiamo cambiare le cose. Dobbiamo informare, agitarci, muoverci, cambiare. Dobbiamo rilanciare le proposte della Rete Italiana Pace e disarmo e farle diventare patrimonio comune, condiviso, trasformarle in un obiettivo possibile. Perché il nostro futuro, di tutti noi, è là dentro. Dentro un Paese che, finalmente, ripudia davvero la guerra.

In copertina , la portaerei Cavour 

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