Uno solo contro tutti

Un articolo che prepara alla Giornata delle Fasce bianche organizzata da Trentino con Balcani e 46° Parallelo in collaborazione con il Forum trentino per la pace e diritti umani e Progetto Prijedor nel Palazzo Thun a Trento

di Edvard Cucek

Sono tanti, oggi, in Trentino e nel resto d’Italia, ad aver sentito parlare delle fasce bianche che più di due decenni fa – esattamente dal 31 Maggio del 1992 – furono imposte ai cittadini non serbi di Prijedor: una fascia da legarsi al braccio quando si usciva di casa, e un lenzuolo bianco appeso alle finestre delle abitazioni.

Le autorità locali (nella Bosnia nord-occidentale, non lontano dal confine croato) ufficialmente lo chiedevano come segno di lealtà nei confronti del nuovo governo, stabilitosi con una specie di colpo di Stato: ma tutti capirono da subito che era un sistema per individuare le future prede, seguendo la ricetta della Germania nazista degli anni trenta.

È una storia triste che non è ancora conosciuta abbastanza, e non abbastanza bene: sono ancora troppo pochi ad essere realmente informati di quanto accadde.

Qualcuno conosce la vicenda del giovane Emir Hodzic, quel ragazzo nato a Prijedor e poi fuggito come tanti altri pur di salvarsi la vita, per finire in Nuova Zelanda e poi a New York; ma in pochi sanno che il suo non fu un gesto spontaneo né tanto solitario.

Prima che Emir decidesse di protestare in silenzio, da solo, in mezzo a una delle piazze principali di Prijedor, con lui tanti cittadini e membri di associazioni non governative avevano richiesto all’allora Sindaco Marko Pavic il permesso di organizzare un evento: protestando contro il silenzio e l’omertà dei politici di maggioranza del tempo, volevano ricordare le 256 donne, concittadine bosniache, uccise in quel genocidio mai menzionato: l’idea era quella di 256 sacchi bianchi che rappresentassero le vittime, nella piazza principale, ciascuno accompagnato da una rosa. Ogni partecipante avrebbe poi indossato al braccio la fascia bianca, quel simbolo di discriminazione che era stato l’inizio di tutto.

Dal Sindaco Pavic, gli organizzatori ricevettero un secco rifiuto. La manifestazione fu espressamente vietata e fu proibito a tutti l’accesso agli edifici del campo di concentramento di Omarska. La classe politica locale si opponeva, ancora una volta, alla verità e alla giustizia.
Il giovane e audace Emir Hodzic uscì allora in piazza, solo contro tutti, ignorando il divieto a manifestare imposto a lui e ai suoi compagni. Non si trattava di un gesto inconsapevole, né di un atto di ribellione di pura gioventù: Emir era ben consapevole di quali rischi stava correndo. Così manifestò da solo: lui, il primo e l’unico protagonista di questo episodio importantissimo e significativo.

Non c’era bisogno di raccontare ai concittadini come tutti loro, o le loro famiglie, avessero subito sulla propria pelle l’umiliazione di quello straccio bianco con cui erano stati marchiati; non serviva spiegare come il popolo di Prijedor fosse un grande testimone muto di una enorme vergogna, cicatrice indelebile della Bosnia ed Erzegovina degli anni Novanta.
Non occorreva. Nessuno gli rivolse nemmeno una domanda, una parola, una provocazione. Neanche i poliziotti, avvicinatisi temendo che la manifestazione potesse sfociare in violenza, avevano nulla da chiedere. Emir rimase per tutto il tempo immerso nel silenzio: quello voluto, da lui, e quello imbarazzato dei passanti, che lo ignoravano o giravano la testa dall’altra parte dopo aver nascosto un brivido, un flash di quei ricordi scomodi e turbanti.

C’era solo lui, una fascia bianca legata al braccio sinistro, un sacco bianco semipieno ai suoi piedi.

Forse il messaggio di questo giovane uomo non era rivolto ai suoi concittadini.
Forse il suo messaggio era per noi, per quegli amici lontani, così benevolenti, ma cauti e distanti come sempre quando si parla delle “questioni interne” degli altri Stati, dove non si vuole pestare i piedi a nessuno.
Era rivolto a noi, amici di quel piccolo paese ai confini di due mondi, a tutti quelli che si credono conoscitori della Bosnia, o che affermano di conoscerla, ma solo nel suo lato moderno.

Io credo che fosse un messaggio per il resto del mondo, vicino e lontano: un gesto audace e rischioso, un grido per richiamare l’attenzione di quel mondo che ama definirsi civile e democratico.

Questo grido è arrivato, non ho dubbi. Quest’anno ci saremo anche noi, a Trento, per dire che “ci riguarda”. Che non possiamo più non volerne sapere, e non possiamo ignorare.

Non possiamo più fare gli astenuti, alla vigilia del settimo anno in cui i cittadini di Prijedor, vivi e morti, ci invitano a non dimenticare, sostenuti dai manifestanti di tante altre città attorno al globo.

Purtroppo, il caso di Prijedor non è il solo: tristemente, gli episodi simili in Bosnia sono tanti.

Non dimentichiamo il messaggio silenzioso di Emir del 2012, che urlava: “Le vittime, sempre e dappertutto, sono gli innocenti”. Ricordiamoci delle vittime di Prijedor, come di quelle di Banja Luka, di Kazani, e di Monstar, dove il Comitato Croato della Difesa (l’HVO) aveva imposto lenzuola bianche alle finestre di ogni casa di cittadini non croati; degli innocenti di Tuzla e Srebrenica, quelle di Trusina, di Ahmici e di Brisevo: tutte storie che possiamo raccontarvi senza uscire dai confini di ciò che è rimasto della Bosnia-Erzegovina.

Ormai la Giornata delle Fasce bianche è diventata internazionale, e conosciuta quasi dappertutto. Per questo, nessuno può più sentirsi estraneo e lasciare che si dimentichino questioni come i genocidi, i crimini di guerra, e la memoria che serve per evitare che tutto questo si ripeta. Non è compito di qualcun altro: la memoria è un diritto che spetta a tutti.

Non possiamo permetterci di essere indifferenti, né tantomeno di fingerci sostenitori di popoli che soffrono ancora.

Ce lo chiese Emir Hodzic, 6 anni fa: da solo in piazza, un bersaglio facile da insultare, da umiliare, da aggredire se lo si avesse voluto. Ce lo impose, con il volto duro di chi sa che le tragedie non sono un’esclusiva delle vittime, e che tutti coloro che hanno sofferto non hanno smesso di soffrire solo perché si è smesso di sparare: le armi non sono gli unici mezzi per discriminare e segregare. Le indescrivibili ingiustizie che alcuni popoli non smettono di patire non sono cancellate da esili tentativi di pace in terre distrutte.

Cerchiamo di essere chiari:

Il giorno dedicato alla memoria delle Fasce bianche di Prijedor non è una giornata condivisa da tutti. Purtroppo, non è ancora una data famosa.

Come avvenne la prima volta, questo evento ancora oggi viene organizzato da semplici cittadini e definito come un “Ritrovo pacifico in movimento”. Un corteo qualsiasi.

Non vi è sostegno né patrocinio dal Comune di Prijedor, dalle autorità locali, dai ministeri vari. Niente.

Nonostante ogni anno i partecipanti aumentino in numero e forza, l’atteggiamento delle istituzioni non è mai cambiato.

Certo, l’anno scorso una seduta del Consiglio Comunale è terminata qualche minuto prima del dovuto, così da permettere ai consiglieri che lo volessero di partecipare al corteo.

Certo, il giornale locale “Kozarski vjesnik” (un tempo, strumento di discriminazione in mano ai politici della città) ha pubblicato per prima volta i nomi dei 102 bambini uccisi negli anni novanta a Prijedor.

Piccoli segnali; ma nel frattempo nemmeno quest’anno la Giornata delle Fasce bianche sarà ricordata o riconosciuta dai vertici della città o dello Stato.

Ecco perché è importante esserci alle 17:30 del 31 maggio, a Trento nel cortile di Palzzo Thun:

perché è un dovere denunciare l’ingiustizia. A Prijedor, a Trento e ovunque.

Come a Prijedor, vogliamo trovarci per invocare pace e perdono, ma anche per chiedere di essere perdonati.

È un dovere indossare volontariamente la fascia bianca come fanno a Prijedor: per avvertire il mondo che portare quella fascia, oggi, vuol dire essere discriminati come lo si era più di vent’anni fa.

Per denunciare che quella pace bosniaca non è una pace, e non è giusta. E finchè non sarà giusta non sarà una pace per tutti.

Ci vediamo a Trento il 31 Maggio. Anche se sarà il giorno in cui si inaugura il Festival dell’Economia: sarà un simbolo anche questo, o forse la casualità, ma i conflitti iniziano e finiscono sempre quando (e come) lo dettano gli interessi economici.

Ma questa volta non possono esserci scuse.

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