Sudan, in fuga dal conflitto

800mila persone potrebbero riversarsi nei Paesi limitrofi. Ed è appena stato evacuato da Khartum un medico che ha scelto di rimanervi a lungo, Michele Usuelli: “Le dichiarazioni dei leader mondiali che chiedono la cessazione delle ostilità suonano stucchevoli a queste latitudini”. Il volto sempre uguale della guerra

Oltre 800.000 persone potrebbero fuggire dal Sudan a causa del conflitto in corso, dice lAlto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), come riporta Al Jazeera questa mattina. In consultazione con tutti i Governi e i partner interessati, siamo arrivati a una cifra pianificata di 815.000 persone che potrebbero fuggire nei sette Paesi vicini, ha detto Raouf Mazou, assistente dell’Alto Commissario dell’UNHCR per i rifugiati, a un briefing degli Stati membri a Ginevra. Abbiamo chiesto a Michele Usuelli, medico di EMERGENCY, di raccontarci come si vive nella capitale sudanese dove lavora

di Michele Usuelli

Khartum – Sono appena stato evacuato dal Sudan, dove lavoravo come responsabile medico del centro pediatrico di EMERGENCY, a Mayo: un campo di rifugiati da 600.000 persone alla periferia di Khartum, chiuso a causa dei feroci combattimenti che stanno insanguinando il Paese. Mi propongono di buttare giù le mie impressioni in questa situazione surreale. L’Ospedale di Cardiochirurgia di EMERGENCY ha compiuto durante questa nuova maledetta guerra i 16 anni dal primo intervento. Abbiamo trovato la forza di festeggiare con una torta, ma era difficile deglutirne i bocconi. Penso a quanta pace è stata costruita qui, concretamente. Si riparano i cuori di persone che provengono da oltre 25 Paesi africani, vittime di una condizione che da noi non esiste quasi più: la malattia reumatica. I pazienti che arrivano da altre nazioni, ricevono dalle autorità sudanesi il visto gratuito e rapidamente, indipendentemente dalla bontà dei rapporti diplomatici in essere. Un piccolo miracolo non violento.

Penso al campo profughi, dove avevo lavorato più di 10 anni fa e al paradosso di essere tornato in un momento di massimo bisogno, e non esserci più potuto andare: la bellezza delle cure primarie sul territorio, costano poco e salvano tante vite, ma non vanno date per scontate. Ci sono i bambini con malattie acute che curavamo ed ora non hanno accesso ai servizi sanitari: è troppo pericoloso andare a lavorare ed è troppo pericoloso andare a curarsi, ma i bambini continuano ad ustionarsi, ad avere polmoniti, crisi di asma e diarrea. Maggiormente mortali in questi giorni, dove è rischioso uscire per comprare acqua, cibo o farmaci. Diarrea è la parola che so dire in più lingue al mondo. Ancora più difficile per me è accettare di non poter seguire più le situazioni croniche e delicatissime che avevamo in carico prima della guerra. Solo perché ho in mente quei volti.

Aiutavamo un neonato di 850 grammi. Lo gestiva la madre, cui avevamo insegnato a tenerlo avvolto nel suo petto 24 ore al giorno, come la borsa di un canguro. Ogni ora si spremeva il latte e lo metteva in bocca con una siringa senza ago. Stava crescendo, pochi grammi al giorno. Un ragazzino alto e magrissimo con la tosse da mesi arrivava da lontano. Lo avevamo inviato al centro tubercolosi per la diagnosi e la terapia. Che ne è di lui? Seguivamo decine di famiglie con bambini malnutriti, dead children walking, perché per loro, ogni malattia può essere fatale. Per loro sono sospesi tutti i programmi di somministrazione di special foods e di educazione sanitaria. Così come i tanti bambini con anemia falciforme, arruolati nel nostro programma. Eccetera, eccetera. Ha molto senso che i non violenti stiano vicino alla violenza, esercitando il proprio ruolo. Fino ad oggi nessun soldato di alcuna fazione si è mai permesso di entrare in ospedale. I colleghi che sono rimasti negli ospedali di EMERGENCY a Nyala, Port Sudan e Khartoum, tutti funzionanti, sono protetti dalla nostra reputazione. Sono 20 anni che in Sudan EMERGENCY offre cure di qualità, gratuite, in ospedali puliti e con personale gentile con i pazienti.

Ho lavorato in Afghanistan. Lì i nostri ospedali sono centri di chirurgia di guerra. Qui c’erano le condizioni per occuparsi di altre malattie, ma la guerra può sempre tornare, come un paradosso. La pace va nutrita. Il più clamoroso paradosso, amarissimo: Mayo è un campo profughi dove regna la miseria. Cionondimeno è un punto di arrivo per chi scappa, e non di partenza. Io non so come siano arrivati a Mayo, in mezzo ad un paese desertico, dei giubbotti di salvataggio per il soccorso in mare. Ma fuori dal centro pediatrico i bambini ci giocavano mettendoli sotto il sedere e facendosi trascinare come fossero slitte da sabbia. In questo stucchevole dibattito senza fine sulle ondate migratorie, non vedo alcuna seria analisi sui motivi per cui la gente scappa, né strategie per lavorare sulle ragioni per cui si decide di rischiare tutto mettendosi in cammino con una valigia in mano.

Le dichiarazioni dei leader mondiali che chiedono la cessazione delle ostilità suonano stucchevoli a queste latitudini. Noi le abbiamo scoperte a Mayo qualche giorno fa. Stavamo visitando, abbiamo sentito esplosioni e visto colonne di fumo. Abbiamo chiuso e siamo scappati a casa. Occupatevi delle guerre. Per noi civili, le guerre arrivano senza avvisare, come le malattie. Ma un buon medico, si occupa di prevenzione e sospetta la malattia dai primi sintomi, curandola prima che deflagri. Occupatevi delle guerre, se non altro per egoismo, se non volete che anche da qui, quei giubbotti vengano messi in una valigia e poi indossati in un viaggio della speranza, di chi non ha nulla più in cui credere.

In copertina un fotogramma del video di Al Jazeera sui profughi siriani che scappano dal Sudan

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