Regno Unito. Scontro sui migranti

Oggetto del contendere è l’Illegal Migration Bill, giro di vite legislativo contro l’immigrazione clandestina su cui a breve dovrà pronunciarsi la Corte suprema britannica

di Antonio Storto

L’atmosfera è da resa dei conti. Da una parte l’esecutivo britannico guidato dal premier Rishi Sunak, intenzionato a rinsaldare a ogni costo l’elettorato conservatore sotto il vessillo della tolleranza zero verso l’immigrazione clandestina. Dall’altra le associazioni per la tutela dei diritti umani, che col governo hanno ingaggiato una battaglia estenuante, combattuta nelle aule di tribunale a colpi di ricorsi, appelli, rinvii.

Oggetto del contendere è l’Illegal Migration Bill, giro di vite legislativo contro l’immigrazione clandestina su cui a breve dovrà pronunciarsi la Corte suprema britannica: varata nel marzo 2023, la legge sancisce – tra una serie di misure draconiane – la deportazione in Ruanda di quanti attraversano illegalmente la Manica, che nel Paese africano si ritroverebbero di fatto bloccati. Una misura, quest’ultima, al centro di un braccio di ferro politico-giudiziario che va avanti ormai da quasi due anni, se si considera che i primi accordi di riallocazione con Kigali furono stretti dall’ex premier Boris Johnson, dietro la promessa di stanziamenti per 120 milioni di sterline. L’ultimo, perentorio, “niet” – dopo un soffertissimo iter d’approvazione parlamentare – Downing Street lo ha incassato a giugno dall’Alta corte di Londra, dove due giudici su tre hanno ritenuto illegali le deportazioni. “Le carenze del sistema d’asilo ruandese – ebbe a dichiarare in merito Lord Burtnett, presidente della Corte – sono tali da far ritenere che vi sia un rischio concreto che i migranti, anche qualora abbiano diritto all’accoglienza, vengano rimpatriati nei loro Paesi d’origine, dove hanno subito persecuzioni o altri trattamenti disumani. In questo senso, il Ruanda non può essere considerato un Paese terzo sicuro”.

Di qui, l’ultimo ricorso intentato da Sunak, che la legge intende portarla a casa a ogni costo: tanto che, se dalla Corte suprema – al lavoro sul caso dallo scorso 9 ottobre – dovesse arrivare un’ultima e definitiva bocciatura, a Downing street c’è già chi parla di spingere la questione fino alle estreme conseguenze. “Ci sono diversi rapporti in circolazione che pronosticano una nuova sconfitta del governo” ha dichiarato a fine ottobre Akiko Hart, presidente ad interim di Liberty, una delle principali organizzazioni umanitarie del Regno Unito. “Ma in quell’eventualità, i conservatori hanno già pronta la prossima mossa”.

Il riferimento è all’uscita dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), che le frange più oltranziste dei Tories vanno paventando da oltre un anno: è proprio appellandosi alla Corte europea per i diritti umani (organo al quale spetta vigilare sul rispetto della Convenzione) che, a partire dal giugno del 2022, associazioni come Liberty o Asylum Aid sono riuscite a bloccare in extremis ogni volo carico di migranti che il governo abbia cercato di mandare in Ruanda, rendendo ad oggi il migration Bill una legge largamente inapplicata.

A maggio, un sondaggio commissionato dal Sun – quotidiano di riferimento della destra britannica più apertamente populista – ha mostrato come il 53% dei cittadini del Regno Unito fosse contrario ad uscire dalla CEDU, contro un 37% di favorevoli: un risultato tutt’altro che sorprendente, se si considera che da quasi settant’anni il documento rappresenta, per i paesi firmatari, la più sostanziale delle garanzie a tutela di diritti fondamentali come quello all’equo processo, alla privacy o a non essere sottoposti a perquisizioni immotivate, a torture e a trattamenti inumani.

Nonostante ciò, “per una parte dei Tories e del governo inglese, la Convenzione pare ormai diventata un inciampo” spiega Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty international, un’altra delle associazioni umanitarie che con più veemenza si sono opposte alle politiche migratorie del governo britannico. “Ma in questo senso – continua – è interessante andare a vedere quali sono le sentenze che la Corte europea dei diritti umani ha pronunciato negli ultimi anni contro il Regno unito per la violazione di una serie di articoli della CEDU: nel 2022 si è pronunciata sui diritti dei lavoratori e delle lavoratrici domestiche; nel 2021 sul tema della sorveglianza di massa, in merito a un esposto presentato da Ong e giornalisti e, sempre nel 2021, in merito alla protezione delle bambine e dei bambini sopravvissuti alla tratta di esseri umani. E ancora, nel 2019, sul tema della violenza domestica e sul caso di un uomo anziano che era stato ingiustamente inserito dalla polizia in un database sugli estremisti politici”. “L’impressione, quindi – conclude Noury – è che il Migration Bill rappresenti in realtà solo la punta di un iceberg nelle tensioni tra il governo britannico e gli organismi posti a garanzia della CEDU. La quale, sarà il caso di ricordarlo, rappresenta uno strumento fondamentale per difendere i più vulnerabili e chiamare i governi a rispondere del loro operato. Ed è per questo che oggi alcune forze politiche iniziano a vederla come un intralcio, che impedisce loro di far quello che vogliono senza essere sottoposte a scrutinio giudiziario”.

Il portavoce di Amnesty sottolinea poi il ruolo fondamentale giocato dalla Convenzione nell’Accordo del Venerdì santo, che pose fine al conflitto nord-irlandese attraverso un’intricata serie di disposizioni che ancora oggi regolano i rapporti tra Regno Unito, Repubblica D’Irlanda e Irlanda del Nord. Un processo in cui, ricorda Noury, “la CEDU ha rappresentato di fatto una bussola”; a tal punto che – come la maggior parte degli analisti britannici continua a rimarcare da un anno a questa parte – abbandonando la Convenzione, di fatto Londra finirebbe per invalidare anche l’Accordo.

C’è poi la giungla legislativa che l’abbandono produrrebbe per via del particolare ordinamento giuridico imposto dalla Common Law, fondato sui precedenti giurisprudenziali più che sulla codifica di atti normativi: in questo senso, non è errato parlare di una “nuova Brexit”, dal momento che Londra si troverebbe obbligata a rimettere pesantemente in discussione la legislazione nazionale per decidere quali pronunce della Corte europea dei diritti umani mantenere a norma di legge e quali no (al netto di quelle già incorporate con lo Human rights act del 1998)

E non è certo un caso che proprio l’ex premier John Mayor, che dell’Accordo di Belfast fu il maggior artefice, oggi guidi la fronda dei dissidenti all’interno del Partito conservatore: ai primi di febbraio, parlando al Comitato scelto per gli affari dell’Irlanda del Nord, Mayor ha ricordato come, oltre a contribuire alla stesura della Convenzione, il Regno Unito fu il primo a ratificarla. “La gente crede che sia un organismo dell’Unione Europea, e per questo non gli piace” ha detto l’ex Premier alla commissione. “Ma non lo è. Churchill e i membri del suo governo ne furono i padri fondatori. È stata un’invenzione britannica”.

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