Accordi di Abramo: “Appena la polvere si sarà poggiata su Gaza si rimetteranno in moto”

Per Francesco Tamburini, docente di Storia e istituzioni dei Paesi afroasiatici, il disgelo dei rapporti tra Israele e nazioni del Golfo mediati da Trump per “marginalizzare l’Iran” sono ormai “un certezza”

di Antonio Michele Storto

Francesco Tamburini

Se dal punto di vista umanitario il disastro è ormai conclamato – con oltre 3.000 vittime già cadute tra i civili palestinesi, che vanno ad aggiungersi ai 1.400 israeliani falcidiati dagli attacchi di Hamas – anche sul piano delle relazioni internazionali si annunciano dirompenti i danni collaterali di questa nuova recrudescenza del conflitto.

Tra questi, il più evidente è probabilmente l’annunciato congelamento degli accordi di Abramo, la piattaforma diplomatica che nel 2020 – sotto gli auspici dell’amministrazione statunitense all’epoca guidata da Donald Trump – aveva già portato alla firma di un’intesa tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein.

Un evento salutato come epocale, dal momento che – per la prima volta dopo i trattati di pace siglati con Egitto (1979) e Giordania (1994) – si assisteva alla normalizzazione delle relazioni tra Israele e una serie di Stati arabi. A questi avrebbe dovuto aggiungersi a breve l’Arabia Saudita, storicamente il più oltranzista tra i difensori della causa palestinese, che fino a qualche anno fa aveva spesso esortato gli altri Paesi dell’area a proseguire sulla linea dei tre “no” fissati dalla Lega Araba con la risoluzione di Khartoum del 1967: ovvero “no al riconoscimento, nessuna pace e nessun negoziato” con Israele.

“In realtà – spiega Francesco Tamburini, docente di Storia e istituzioni dei Paesi afroasiatici all’università di Pisa – quello del riconoscimento di Israele da parte delle monarchie del Golfo è un falso problema nel quadro attuale degli accordi di Abramo. La questione oggi è preminentemente economica ed emblematiche, da questo punto di vista, sono state le dichiarazioni del Ministro degli Esteri emiratino. Il quale, interrogato sui possibili sviluppi della crisi, ha esplicitamente detto di non voler ‘mischiare la politica con il commercio’”.

Sul punto, del resto, le cifre parlano da sé: nel solo 2022, spiega Tamburini, “l’interscambio commerciale tra Emirati e Israele è stato pari a due miliardi e mezzo di dollari e ad oggi sono poco meno di 50 le compagnie israeliane che operano nella zona di Dubai”. Non meno importanti, secondo il docente, sarebbero i rapporti col Bahrein, “incentrati però in maggior misura sulla cooperazione militare e, nello specifico, sul commercio d’armi”.

La nuova crisi ha poi paralizzato di riflesso anche l’IMEC, il corridoio economico tra India, Medio Oriente ed Europa, ideato all’ultimo G20 di Nuova Delhi come possibile alternativa alla Via della Seta. “C’era, dunque – continua Tamburini – un forte dinamismo economico che si era messo in moto nella regione. E se da un lato si può ragionevolmente supporre che tutto ciò sia destinato a ripartire, resta assai difficile capire il quando e il come”.

Tutto dipenderà, secondo il docente, da come la crisi andrà evolvendo sul piano militare. “Nessuno – continua Tamburini – sa cosa davvero intenda fare l’IDF (forze di difesa israeliane, ndr), e non è affatto scontato che un’invasione di terra ci sarà. Ho appena avuto modo di consultare dei rapporti riservati della NATO e neppure loro hanno un’idea chiara di cosa potrà accadere: al netto delle dichiarazioni, gli stessi israeliani sanno bene di poter eliminare tuttalpiù delle cellule di Hamas ma di non poterne scalfire la dirigenza, che vive in gran parte negli Stati del Golfo. E i costi umani di un’operazione di guerriglia urbana sarebbero del resto altissimi per un Paese il cui esercito ha riportato l’ultima vittoria netta nel 1967, e che in seguito è stato segnato da una fase di lento ma costante declino”.

Qualora l’invasione dovesse esserci, resterà poi da vedere se e quanto si allargherà il conflitto: “ovvero – chiarisce il Professore – come reagiranno l’Iran e i suoi alleati regionali, la Siria e gli Hezbollah libanesi”.

Proprio l’Iran – da molti indicato come il deus ex machina di questa nuova fiammata nel conflitto israelo-palestinese – parrebbe al momento, secondo Tamburini, “l’unico vero vincitore in questa crisi, perlomeno sul piano diplomatico”. Gli stessi accordi di Abramo furono, del resto, concepiti da Donald Trump e Jared Kushner all’interno di una più vasta strategia tesa a marginalizzare Teheran. “In ogni caso – spiega Tamburini – è improbabile che l’Iran punti a una guerra aperta: ha così tanti problemi economici e di dissenso interno, che difficilmente potrebbe sostenerne il costo. Oggi Teheran ambisce ad essere una forza destabilizzatrice: quello che vuole è creare caos, potendo peraltro contare su una diplomazia raffinatissima. E foraggiando una forza sunnita come Hamas, di fatto sono riusciti, almeno momentaneamente, a rompere un equilibrio internazionale che gli sarebbe stato apertamente ostile”.

Per quanto riguarda le relazioni tra Israele e le monarchie del Golfo, invece, il disgelo, più che un’ipotesi, resta quasi una certezza: “Appena la polvere si sarà poggiata su Gaza – prevede il Professore – il meccanismo si rimetterà in moto. Questo potrebbe succedere magari tra un anno o un anno e mezzo; ma difficilmente si potrà tornare alla situazione precedente”.

Una notizia tutt’altro che buona per il futuro della Palestina: secondo Tamburini, proprio gli accordi di Abramo rappresentano “una coltellata ai diritti dei palestinesi. Per rendersene conto – illustra il docente – basta analizzare il testo della risoluzione, che presenta un’evidente discrepanza tra la versione in inglese firmata da Israele rispetto a quella siglata dalle monarchie del Golfo. Se nel testo in arabo si parla infatti di un impegno israeliano ‘a fermare i piani d’annessione di territorio palestinese’, nella versione inglese è scritto che gli accordi ‘porteranno Israele a sospendere i piani per estendere la propria sovranità’”.

“Il che – prosegue il docente – al netto della vaghezza del verbo ‘sospendere’, può benissimo implicare che Tel Aviv dia per scontato di mantenere invariata la sua posizione in Cisgiordania e nei territori che continua ad occupare dal 1967 a dispetto di una serie infinita di risoluzioni ONU; mentre le monarchie del Golfo potranno ripararsi dietro l’ambiguità semantica del testo che hanno firmato per non essere apertamente accusate di filosionismo”.

“La tragica realtà – conclude Tamburini – è che oggi non c’è nessuno che tuteli gli interessi dei palestinesi, se non in maniera strumentale. Tramontato ogni anelito panarabo nella regione, sono divenuti pedine in un gioco molto più grande di loro. La stessa Hamas utilizza i civili di Gaza come pedine e del resto si può dire che l’OLP, con una leadership corrotta e anziana come quella di Abu Mazen, ne tuteli veramente gli interessi? È una domanda aperta, che ormai suona drammaticamente retorica”.

Per saperne di più, leggi la nostra scheda conflitto Israele/Palestina

* In copertina, Benjamin Netanyahu (Premier israeliano), Donald Trump (ex Presidente degli Stati Uniti), Abdullatif bin Rashid Al Zayani (Ministro degli Esteri del Bahrain) e Abdullah bin Zayed Al Nahyan (Ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti) partecipano alla cerimonia degli Accordi di Abramo alla Casa Bianca (Washington DC, USA – 15 settembre 2020) ©noamgalai/Shutterstock.com

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