Etiopia effetto guerra (3)

Un viaggio in tre puntate alla scoperta del passato coloniale italiano e dell'attualità del Paese

di Silvia Orri

Qui la prima puntata e qui la seconda

Vite, storie, scelte ed aspirazioni completamente diverse. Nonostante le centinaia di chilometri che dividono queste persone ho sentito però un po’ alla volta una sorta di vocabolario comune che andava creandosi, dei concetti chiave che mi sono rimasti impressi perché ripetuti più volte nei vari incontri in cui mi sono imbattuta.

In primis, lo sconforto di fronte alla guerra. Il Paese è fermo, la sua vivacità si affievolisce sempre più, rialzarsi diventa ogni giorno più faticoso. Il susseguirsi dei conflitti ha fatto sì che l’Etiopia si chiudesse in sé stessa, le connessioni con il mondo al di fuori sono rare, commercio, edilizia, turismo sono quasi immobili e gli stranieri tuttora scelgono mete alternative per i loro viaggi.

Non è solamente una questione economica. Si respira come una sensazione di timore che gli strascichi della guerra lacerino profondamente la convivenza e la solidarietà tra le più di 80 etnie presenti nel paese. È un dato di fatto che gli scontri etnici non sono affare recente ma il sentimento della maggior parte dei civili non porta rancore per il diverso ed è per questo che esiste la paura che le dispute alimentate da una politica repressiva e violenta possa far serpeggiare diffidenza ed odio tra chi condivide serenamente la propria quotidianità con quella di persone di gruppi etnici differenti. Gli etiopi non vogliono che i conflitti tra eserciti si trasformino anche in conflitti tra vicini di casa.

Un’altra parola facente parte di questo vocabolario comune è “perdono”. Interrogando le persone sul loro rapporto con gli italiani e la parentesi coloniale del periodo fascista mi sono resa conto che non esistono residui o sedimenti di risentimento e rancore. Un pizzico di orgoglio non viene celato chiaramente, la tenace resistenza etiope ha saputo sconfiggere gli invasori fascisti e la storia parla chiaro. La storia, i massacri e le atrocità che sui nostri libri riusciamo ancora a celare; questa volta il conflitto ce lo stiamo auto infliggendo. Come popolo italiano non abbiamo ancora scelto di fare la pace con quelle verità scomode che fanno parte di noi in maniera subdola, nascosta e repressa. La riconciliazione con gli “italiani (non) brava gente” può aiutarci ad approfondire quello che ha significato il fascismo anche dopo la sua caduta, nelle nostre abitudini e credenze. Questa ignoranza viene spesso chiamata “il grande rimosso”, vista da un’altra prospettiva potrebbe però anche vedersi come “il grande rimasto”, cioè quella convinzione che durante le campagne coloniali fasciste abbiamo saputo esportare infrastrutture, imprenditoria e lavoro. Questa bugia rimane ancora nelle nostre viscere, sarebbe tempo di rimuoverla e curarla attraverso lo studio, facendo i conti con la nostra vergogna. Le armi chimiche, le leggi sul meticciato, i gas asfissianti, la propaganda, non abbiamo ancora imparato a conviverci dopo quasi 100 anni. Gli etiopi sicuramente in questo mi hanno dato un grande aiuto. Deselezioniamo la storia.

Dopo l’occupazione italiana di Addis Abeba, il 5 maggio 1936, gli invasori acquartierarono le loro truppe nel complesso del Palazzo dell’imperatore Hailé Selassié. Accanto al pennone furono eretti dei gradini di cemento: un gradino per ogni anno di potere fascista a partire dalla marcia su Roma di Mussolini, nel 1922. È qui che l’episodio dell’attentato a Rodolfo Graziani scaturì una rappresaglia cruenta e crudele che sfociò nel massacro di Debra Libanos. Il palazzo è attualmente un museo e l’area è una delle maggiori sedi dell’università della capitale. Quella scalinata non è stata rimossa e gli etiopi hanno deciso di appostare sull’ultimo gradino la statua di un leone di Giuda. Bando ai rimossi ed alle demolizioni, spazio invece alla memoria ed al dialogo.

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