Grano per l’Etiopia ma il Corno d’Africa muore di fame

È arrivato a Gibuti martedì il primo carico di grano dall’Ucraina destinato ad Addis Abeba. Ma una gran parte dell’area resta vittima di una crisi complessa, climatica e geopolitica mentre sono circa 22 milioni le persone che rischiano la morte per inedia

 di Marta Cavallaro

La Brave Commander è arrivata a Gibuti martedì scorso. La nave, noleggiata dalle Nazioni Unite e salpata dal porto ucraino di Yuzhny due settimane fa, trasportava il primo carico di grano destinato al Corno d’Africa dall’invasione russa dell’Ucraina. A beneficiare delle 23.000 tonnellate di grano a bordo sarà l’Etiopia, paese in cui secondo la FAO circa 4,6 milioni di persone soffrono di insicurezza alimentare.

L’arrivo della nave segna la ripresa delle esportazioni di cereali e fertilizzanti dai porti di Odessa, Chernomorsk e Yuzhny all’indomani dell’accordo che ha posto fine al blocco russo imposto sui porti ucraini, firmato a fine luglio tra Kiev e Mosca e mediato dalle Nazioni Unite e dalla Turchia. Prima dell’inizio della guerra, la Russia e l’Ucraina fornivano insieme il 30% delle esportazioni globali di grano e il 20% di quelle di mais. Dai due Paesi partiva anche l’80% dei prodotti a base di semi di girasole e la Russia rimaneva uno dei principali esportatori mondiali di fertilizzanti. Con la guerra tutto ciò si era interrotto, determinando un aumento dei prezzi dei prodotti alimentari in tutto il mondo e aggravando l’insicurezza alimentare dei paesi maggiormente dipendenti dalle esportazioni russe e ucraine.

 

L’Africa è stata particolarmente colpita dalla guerra, visti i rapporti commerciali preesistenti tra i Paesi africani, la Russia e l’Ucraina. Nel 2020 le importazioni di prodotti agricoli dalla Russia ammontavano a 4 miliardi di dollari, di cui il 90% era costituito da grano e il 6% da olio di semi di girasole. Numeri simili si riscontravano con l’Ucraina: dei prodotti agricoli importati per un totale di 2,9 miliardi di dollari circa il 48% era grano e il 31% mais. Il blocco delle esportazioni e il conseguente aumento dei prezzi prodotto dalla guerra hanno esasperato una crisi alimentare di cui buona parte del continente soffriva già da tempo. Secondo la Fao nel 2021 la fame estrema colpiva già 278 milione di persone in Africa con un evidente aumento del fenomeno rispetto alle cifre degli anni precedenti.

Le cause della crisi alimentare e della malnutrizione erano allora principalmente climatiche. Oggi con le ricadute della pandemia e del conflitto in Ucraina si parla di una crisi complessa, non solo climatica ma anche geopolitica. Dopo quattro stagioni di piogge scarse, se non assenti, una delle peggiori siccità degli ultimi decenni sta colpendo il Corno d’Africa. Secondo l’Organizzazione Meteorologica Mondiale la situazione è destinata a peggiorare: le previsioni per il periodo tra ottobre e dicembre mostrano un’alta probabilità di condizioni climatiche più secche della media, cosa che aumenterebbe il rischio di siccità per il quinto anno consecutivo. Si parla di una “crisi umanitaria senza precedenti” in Etiopia, Kenya e Somalia con circa 22 milioni di persone che – secondo l’Onu – rischiano di morire di fame.

I riflettori sono però puntati altrove e l’Africa rimane ancora ignorata nelle attenzioni e nella distribuzione dei fondi internazionali. La mobilitazione per assistere le vittime della guerra in Ucraina ha purtroppo messo in evidenza il divario immenso tra la realtà quotidiana di coloro che soffrono lontano dai riflettori e i risultati che si possono raggiungere quando una crisi suscita l’interesse della comunità internazionale. Secondo il Norwegian Refugee Council le dieci crisi umanitarie più ignorate al mondo nel 2021 si trovavano tutte in Africa. Nel 2022 la situazione non poteva che peggiorare: la guerra europea ha bruscamente sottratto milioni di dollari a crisi umanitarie di più lunga durata come quella in Somalia e quella in Etiopia. È di qualche settimana fa la dichiarazione tagliente di Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha definito “il peggior disastro sulla Terra” la situazione in Etiopia, Paese afflitto da guerra, siccità e carestia. Rivolgendosi alla comunità internazionale con evidenti accuse di razzismo, Ghebreyesus, lui stesso originario della regione del Tigray, ha pubblicamente supposto che fosse il colore della pelle della popolazione etiope la causa della totale distrazione nei confronti di quanto accade nel Paese.

La disattenzione nei confronti dell’Africa colpisce ancora di più se si considera che sul continente africano si ripercuotono gli effetti peggiori delle azioni e delle emissioni del resto del mondo. Si è appena conclusa in Gabon l’Africa Climate Week, iniziativa delle Nazioni Unite per esplorare soluzioni concrete per arginare il devastante impatto del cambiamento climatico nel continente. Sebbene i paesi africani contribuiscano solo al 4% delle emissioni globali, le previsioni dimostrano che entro il 2030 saranno 118 milioni gli africani a soffrire di grave siccità, inondazioni massicce e caldo estremo. Ancora una volta l’Africa paga le terribili conseguenze di una crisi che viene da lontano e di cui non è responsabile.

In copertina tre qualità di frumento

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