Haiti: un cavallo di troia per Covid-19

Il 7 aprile 61 haitiani sono stati deportati dagli Usa verso la loro nazione. Si rischia così di  facilitare la diffusione della malattia

di Elia Gerola

Il 7 aprile 2020, 61 haitiani sono stati deportati dagli Stati Uniti nella loro terra natale. Immediate le critiche delle Ong locali e internazionali, che hanno sottolineato il rischio sanitario posto da questa pratica in un momento delicato come quello della Pandemia di Covid-19. La Repubblica di Haiti è infatti un Paese povero, martoriato da uno strisciante conflitto latente e da frequenti catastrofi ambientali come uragani (Matthew nel 2016) e terremoti (2010, 220 mila morti).

Oswald Cate, capo progetto della Ong bostoniana Partners in Health ha infatti spiegato al The Intercept, che deportazioni come queste sono oggi “irresponsabili e pericolose da un punto di vista della sanità pubblica”. Perché? La ragione risiede nel fatto che i 61 individui sono stati rimpatriati nel mezzo di una crisi sanitaria causata da un virus, ed a quanto è stato comunicato, non sarebbero stati preventivamente testati per verificare se ne fossero affetti o meno. Sebbene non visibilmente malati potrebbero esserne portatori asintomatici o stare semplicemente incubando le prime fasi dell’infezione. Potrebbero in altre parole fungere da “cavalli di troia” involontari per il Coronavirus, importandolo sull’isola e favorirne la trasmissione comunitaria. Ecco perché sono stati messi immediatamente in quarantena, occupando le già scarse risorse economiche e umane in ambito finanziario a disposizione del Governo guidato da Joseph Jouthe.

La cosa grave però aggiunge Oswald, è che Washington, volendo proseguire in questo momento i propri programmi di deportazione starebbe “creando stress su un sistema già vulnerabile”. Haiti conta infatti 11 milioni di abitanti, concentrati su un territorio all’incirca vasto quanto la Sicilia (che ha però la metà della popolazione), caratterizzato dall’avere “gli indici sanitari più basi di tutto l’emisfero occidentale” come prova uno studio indipendente condotto dai ricercatori di REACH, nel 2019. I dati parlano da sé: sono state censite 51 strutture sanitarie, nel 80% delle quali non vi sarebbe una sistematica differenza nell’impiego di reparti di “terapia intensiva” e reparti normali. In tutta l’isola inoltre, il Sistema Sanitario Nazionale avrebbe solo 124 posti di terapia intensiva e la capacità di ventilare esclusivamente 62 pazienti simultaneamente.

Ecco perché il Governo ha chiuso il suo unico confine terrestre con la Repubblica Dominicana e la maggior parte dei voli internazionali molto presto rispetto agli altri Paesi del continente americano, già il 15 marzo. Non solo, ma vista la volontà dell’Agenzia di Washington che si occupa di Immigrazione e Controllo delle Frontiere per conto del Dipartimento di Sicurezza Nazionale di proseguire con le deportazioni, il Ministro degli Esteri di Port-au-Prince avrebbe anche chiesto una moratoria alle deportazioni causa emergenza sanitaria. Ufficialmente non risulta però alcuna replica. Intanto la diffusione di Covid19 nell’isola sembra essere circoscritta, al 15 Aprile, secondo un comunicato del Ministero della Salute, vi erano 41 casi positivi e 3 morti. Tuttavia dall’inizio dell’emergenza sono stati eseguiti solo 453 test, un numero esiguo per capire l’effettiva entità della diffusione locale della malattia.

Una cosa è però certa, la situazione rimane critica e contenere e prevenire Covid-19, con tutte le sue criticità, rimane la priorità. Il Global Health Security Index colloca il Paese, tra i più poveri al mondo, nella categoria degli Stati “meno preparati” ad eventi epidemici. D’altronde i dati demografici e sociali testimoniano un rischio oggettivo. La densità abitativa è molto elevata, pari a 411 abitanti per chilometro quadrato (la 31° nel mondo), mentre la speranza di vita si configura bassissima, a 65 anni circa (194° nel Pianeta). In compenso, solo 10 % della popolazione ha più di 55 anni, tuttavia questa giovinezza che farebbe pensare ad un fattore di rischio più basso rispetto a vod-19, nasconde altre verità. Ad esempio lo scarsissimo livello igenico-sanitario generale: solo il 24% della popolazione avrebbe accesso a servizi igenici e nelle aree rurali solo il 33% avrebbe accesso all’acqua potabile. Non solo, ma il 75% della popolazione vive in baraccopoli, e il tessuto sociale è uscito solo 2 anni fa da un’ultima ondata epidemica di colera, importata dai caschi blu dell Onu nel 2010.

Infine l’aspetto economico: la povertà locale potrebbe acuirsi in caso di contagio incontrollato, determinando ulteriore instabilità sociale. Il Pil pro capite medio nel 2019 era di 870$, però 6 milioni di persone vivono, secondo la Banca Mondiale con meno di 2,5 $ al giorno. In questo contesto di economia di sostentamento, le misure di distanziamento sociale non sono di facile applicazione quindi. Non lavorare nell’economia informale significa non uscire di casa e non poter quindi racimolare anche pochi spiccioli, condannando alla fame interi nuclei famigliari. Se Covid-19 si diffondesse, non è quindi difficile immaginare la morte di migliaia di persone e il sovraccarico del già precarissimo sistema sanitario. Al drama umano si potrebbero dunque aggiungere quello socio-economico: decrescita economica, ulteriore povertà, conseguente inasprimento dei disordini sociali con una possible escalation del conflitto latente che, come vi raccontiamo nella nostra scheda ad hoc, ormai da decenni attanaglia questa metà dell’isola di Hispaniola.

Foto copertina: “Haiti”, 19 gennaio 2015, Nathan Congleton, via Flickr.com

#NoiRestiamoaCasa

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