di Alessandro De Pascale
«Gli Stati Uniti non vogliono essere il poliziotto del Medio Oriente. Ora tocca agli altri combattere». Parole pronunciate dal presidente Usa, Donald Trump, già nel dicembre 2018, mese in cui il tycoon alla guida degli Stati Uniti con la sua schizofrenica politica estera annunciò al mondo un disimpegno dalla Siria (e dall’Afghanistan). Per l’allora capo del Pentagono, Jim Mattis, tale scelta era «un errore colossale», tanto da presentare le sue immediate dimissioni. In disaccordo anche con la scelta della Casa Bianca di voler delegare la propria influenza in Medio Oriente all’Arabia Saudita di Mohammad bin Salman e all’Israele di Benjamin Netanyahu, entrambi al momento in grande difficoltà. Potrebbe quindi andare in questa direzione il nuovo annuncio di Trump dell’immediato ritiro di ulteriori truppe Usa (a quanto pare 100 uomini sui 1.100 rimasti), per consentire una staffetta con i militari turchi, pronti a prendere il posto degli statunitensi.
Occuperanno tutti i 370 chilometri di confine, a differenza del 2016 (a ovest del fiume Eufrate) e del 2018 (attacco ad Afrin), in cui si appropriarono solo di aree limitate. Il tutto non per combattere l’Isis, perché il nemico del presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, sono le Forze di protezione popolare curde (le Ypg e le Ypj). Quest’ultime considerate da Ankara un’organizzazione terroristica, dagli Usa un alleato – almeno fino a ieri – tanto da finanziarle e addestrarle negli ultimi 5 anni per farne la fanteria della coalizione internazionale a guida americana che ha sconfitto militarmente lo Stato Islamico in Siria. E ora, di fatto, abbandonate dall’Occidente al loro destino. «Gli ordini sono stati impartiti (…) l’operazione impegnerà le nostre truppe di terra e le forze aeree e non c’è dubbio che potremo contare sulla forza dei nostri fratelli in territorio siriano», ha tuonato Erdoğan.
Valzer di alleanze
Ma chi sono questi “fratelli” di cui parla? Innanzitutto la Russia, con il suo presidente Vladimir Putin che gongola, avendo sempre considerato «illegale» la presenza di truppe Usa in Siria e pronto ora ad avere mani libere nella regione. I tempi delle tensioni per l’abbattimento da parte dei turchi di un caccia russo lungo il confine siriano nel novembre 2015 sono ormai lontani. L’acquisto da parte della Turchia di un avanzato sistema missilistico di difesa aerea russo, l’S-400, da quest’estate in fase di installazione anche nelle basi vicine alla Siria, conferma la ripresa dei rapporti tra i due sultani. Una scelta che aveva irritato non poco la Nato, di cui la Turchia si conferma un membro di lungo corso (dai tempi della Guerra fredda), ma sempre più inaffidabile, giocando di fatto su più tavoli e dotandosi del top della tecnologia bellica sia da Washington, sia da Mosca.
In seguito a quella transazione, gli Usa avevano congelato la vendita ad Ankara dei nuovi caccia invisibili F-35, temendo potesse individuarne i punti deboli a favore del sistema antiaereo russo. Per discutere della questione, Erdoğan è atteso a Washington ai primi di novembre. Incontro durante il quale si parlerà sicuramente anche di Siria. Russia e Turchia non sono le sole a festeggiare il disimpegno Usa: c’è anche l’Iran, altro alleato del regime di Damasco. Per i curdi, questo “avvicendamento”, visto come un vero e proprio tradimento, è stato un fulmine a ciel sereno. Ad agosto Usa e Turchia avevano firmato un accordo per la stabilizzazione di quel confine che prevedeva la creazione nel nord della Siria di una “safe zone” (o “zona cuscinetto”) profonda fino a 30 chilometri, per dividere le forze turche da quelle curde.
In pratica, la forza di interposizione a controllo di quell’area sarebbe stata statunitense, così da garantire a questa minoranza protezione e sicurezza. Già alla fine di quel mese, i curdi avevano così iniziato a ritirarsi dal confine, peraltro demolendo nelle scorse settimane su richiesta Usa le proprie fortificazioni alla frontiera. A cambiare tutto, una telefonata tra Trump ed Erdoğan avvenuta domenica. Dopo quello scambio, già all’alba di martedì, i blindati statunitensi hanno iniziato ad abbandonare i posti di confine di Tall Abyad e Ras Ayn, dai quali potrebbero entrare le truppe della Turchia che «caccerà i terroristi curdi dalla Siria», per usare le parole del ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu. Tra gli obiettivi di Erdoğan, riportare oltre confine il più alto numero possibile di rifugiati siriani (almeno 1 milione), anche se in cambio di 6 miliardi di euro dell’Ue si era impegnato a trattenerli sul proprio territorio (accordo che dovrà essere rinegoziato nel 2020). Il passaggio di consegne all’esercito di Ankara riguarderebbe anche la sorte dei circa 10mila prigionieri dell’Isis (combattenti stranieri compresi) attualmente in mano ai curdi. Cosa che preoccupa non poco l’Europa. Del repentino cambio di programma statunitense, la Casa Bianca non avrebbe avvisato nemmeno gli altri alleati presenti sul terreno: gli uomini delle forze speciali francesi e britanniche. E dei turchi, non tutti si fidano. Molti ricordano che la maggior parte dei combattenti stranieri unitisi all’autoproclamatosi califfo sono entrati in Siria attraverso la Turchia. Cui si aggiunge l’accusa rivolta al cerchio magico di Erdoğan di aver acquistato il petrolio contrabbandato dall’Isis: il suo terzogenito, Bilal, nel 2016 è finito indagato a Bologna con l’accusa di riciclaggio (inchiesta da poco archiviata). L’altra grande preoccupazione riguarda proprio la possibilità che l’Isis possa rialzare la testa. Da quando in questi giorni è iniziato il movimento di truppe Usa, colonne delle Ypg stanno abbandonando i territori riconquistati a est della Siria, come le città di Raqqa e Deir Ezzor particolarmente vulnerabili, per tornare verso ovest a difendere i cantoni curdi che formano la Rojava. Anche perché l’esercito di Ankara ha già iniziato a bombardare dal cielo e sparare i primi colpi d’artiglieria sull’altro lato del confine. Staremo a vedere se Erdoğan replicherà anche nel Kurdistan siriano la brutale occupazione militare che da anni ha sospeso i diritti in quello turco. Con buona pace dell’esperimento democratico, praticamente unico nel Medio Oriente, creato in questi anni dai curdi in Siria con la Rojava. Intanto dal Kurdistan, manifestazioni di piazza e sit-in di protesta, stanno arrivando anche in Europa.