Iran, un anno di proteste

Il punto sulla repressione del movimento nato in seguito alla morte di Mahsa Zhina Amini

Era il 16 settembre 2022 quando Mahsa Zhina Amini moriva in ospedale a causa dei maltrattamenti subìti dopo essere stata arrestata dalla polizia morale in Iran perché indossava il velo “in maniera impropria”. La morte della 22enne originaria del Kurdistan iraniano ha dato il via a una vera e propria rivoluzione popolare, guidata da moltissime donne, ma condivisa da altrettanti uomini.

Dodici mesi di repressione

Il bilancio di questo anno di protesta è, dal punto di vista della repressione, drammatico. Centinaia sono state le uccisioni, decine di migliaia gli arresti arbitrari, le torture, gli stupri delle detenute e le intimidazioni. Tra settembre e dicembre del 2022, le forze di sicurezza iraniane hanno represso la protesta militarmente, uccidendo manifestanti e persone che assistevano alle proteste, compresi decine di minorenni. Oltre la metà delle vittime apparteneva alle minoranze baluci e curda.

Durante le manifestazioni le forze di sicurezza hanno sparato proiettili e pallottole di metallo per disperdere e terrorizzare le persone, causando ferite e in vari casi la perdita della vista o degli arti e la riduzione della mobilità. Migliaia di manifestanti, minorenni inclusi, sono stati poi torturati in carcere.

E non sono mancati i discorsi d’odio contro i manifestanti. La protesta è stata infatti a più riprese definita come “un virus”, “una malattia sociale” o “un disordine”. La scelta di non indossare il velo è stata paragonata alla “depravazione sessuale”. Le persone che scendevano in strada sono state definite “teppisti” e “persone non identificate” e le loro uccisioni appellate come “suicidi” o “incidenti”. Molti sono stati i difensori dei diritti umani e gli attivisti arrestati. Tra i detenuti ad oggi ci sono almeno 90 giornalisti e altri operatori dell’informazione e 60 avvocati, compresi quelli che rappresentavano le famiglie dei manifestanti uccisi. Decine di altri legali sono stati convocati per interrogatori.

Sette sono stati i manifestanti impiccati al termine di processi definiti dalla ong “vergognosamente irregolari”. “Alcuni di loro – scrivono – sono stati messi a morte per il presunto reato di danneggiamento di beni pubblici, altri dopo essere stati giudicati colpevoli della morte di agenti delle forze di sicurezza durante le proteste”. Ad oggi altre decine di persone rischiano la condanna a morte o l’impiccagione in relazione alle proteste. Sugli atti repressivi dei primi mesi di protesta sta investigando una Commissione di inchiesta istituita nel novembre 2022 dal Consiglio Onu dei diritti umani.

Alta tensione per l’anniversario

In vista dell’anniversario della morte di Mahsa Amini, secondo quanto monitorato da Amnesty, le autorità “hanno intensificato la campagna di arresti arbitrari, anche ai danni dei familiari dei manifestanti uccisi, e hanno costretto migliaia di studenti universitari a firmare dichiarazioni contenenti l’impegno a non partecipare alle proteste di questi giorni”. Una ricerca condotta dalla ong denuncia arresti arbitrari, la detenzione dei parenti delle vittime, limitazioni ai raduni nei cimiteri, danneggiamenti e distruzioni di lapidi.

La ricerca coinvolge 36 famiglie di altrettante vittime che negli ultimi mesi hanno subito violazioni dei diritti umani in dieci diverse province iraniane: 33 uccise durante le proteste, due messe a morte e una torturata e suicidatasi dopo la scarcerazione. Queste famiglie sono state sottoposte ad arresti arbitrari, a procedimenti giudiziari per accuse non circostanziate di minaccia alla sicurezza nazionale, interrogatori coercitivi e a sorveglianza illegale.

La repressione continua al cimitero

Le autorità iraniane hanno anche cercato d’impedire commemorazioni nei luoghi dove sono state sepolte le vittime. Le famiglie che hanno sfidato il divieto hanno denunciato la presenza di ingenti forze di sicurezza, che hanno interrotto le cerimonie, fotografato le persone presenti e arrestato i familiari delle vittime. Amnesty International ha anche documentato e pubblicato le immagini del danneggiamento o della distruzione delle tombe di 20 vittime in 17 diverse città. Le tombe sono state ricoperte di catrame o vernice e date alle fiamme, sono state divelte le lapidi e cancellate le frasi che definivano le vittime martiri.

Dopo che la famiglia di Mahsa Jina Amini ha condannato i ripetuti danneggiamenti delle tombe delle vittime della repressione, le autorità iraniane hanno annunciato che sposteranno la sua lapide dal cimitero di Saqqez, nella provincia del Kurdistan, per rendere più difficile l’accesso al pubblico. Nell’ultimo anno la sua tomba è infatti diventata un punto di incontro per le famiglie dei manifestanti uccisi.

Nuove restrizioni verso un’ “apartheid di genere”

Nuovi provvedimenti repressivi contro le donne che sfidano le leggi sono stati introdotti in questi mesi dalle autorità iraniane. Tra questi c’è il sequestro delle automobili, il divieto di accesso al lavoro, all’istruzione, alle cure mediche, ai servizi bancari e ai trasporti pubblici. Il portavoce della Disciplinary Force of the Islamic Republic of Iran (Faraja), Saeid Montazeralmahdi, ha specificato alla Cnn che: “Le donne che indossano un abbigliamento non conforme saranno prima avvertite dagli agenti, mentre quelle che non si conformano e insistono a infrangere le regole potrebbero affrontare azioni legali”.

Alla fine di luglio il governo ha proposto un nuovo disegno di legge che in 70 articoli prevede un inasprimento delle condanne per le donne che si rifiutano di indossare il velo. Se oggi rischiavano da 10 giorni a 2 mesi di carcere, la nuova proposta prevede una condanna che va dai 5 ai 10 anni di reclusione. Inoltre le donne condannate potrebbero vedersi bandite da qualsiasi attività su Internet per un massimo di due anni.

Il tentativo legislativo è stata definito “una forma di apartheid di genere”, dal gruppo di esperti nominati dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. “Il progetto di legge – scrivono – potrebbe essere descritto come una forma di apartheid di genere, poiché le autorità iraniane sembrano governare attraverso la discriminazione sistematica con l’intenzione di mettere donne e ragazze in una posizione di totale sottomissione”.

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