Una ‘Bloody Sunday’ quella di domenica 7 marzo per le Filippine. In una giornata si sono registrati nove omicidi mirati di attivisti, appartenenti a diverse organizzazioni della società civile. I nove sono stati uccisi con esecuzioni mirate compiute da forze di sicurezza governative.
Ma vediamo chi erano le vittime. Puroy dela Cruz e Randy “Pulong” de la Cruz erano attivisti del gruppo indigeno Dumagat Sierra Madre, che lotta per i diritti dei popoli originari. Emmanuel “Manny” Asuncion era un attivista sindacale dell’associazione Bayan-Cavite, che si occupava di denunciare gli abusi delle forze di polizia nella regione di Calarbazon. Michael “Greg” Dasigao, Abner e Edward Esto, e Mark Lee Bacasno erano impegnati nell’organizzazione Sikkad-K3 che si occupa di diritto alla casa. Chai Lemita Evangelista e Ariel Evangelista erano invece membri dell’associazione di pescatori Umalpas Ka e lottavano contro lo sfruttamento minerario, il land grabbing e gli effetti del cambiamento climatico. Nell’agosto 2020 erano state assassinate l’attivista sociale Zara Alvarez e Ka Randi Echanis dell’organizzazione Karatapan.
Secondo il governo i nove erano armati e facevano parte della guerriglia comunista del New People Army ma i familiari e i conoscenti delle vittime rifiutano categoricamente le accuse. Il governo non ha fornito prove a sostegno della sua tesi. Poco prima delle esecuzioni, venerdì 5 marzo, il presidente Duterte aveva dichiarato “Ho detto ai militari e alla polizia che, in caso di scontro armato con i ribelli comunisti, li ammazzino, facessero bene attenzione a farli fuori e controllassero che non rimangano vivi, basta che poi si restituiscano i loro corpi alle rispettive famiglie […] dimenticatevi dei diritti umani […] è il mio ordine e se andrò per questo in prigione non è un problema, non ho riserve a fare le cose che devo fare”.
Human Rights Watch ha commentato la violenza dichiarando che “questi attacchi sembrano essere parte di un piano coordinato da parte delle autorità per perquisire, arrestare e persino uccidere gli attivisti nelle loro case e uffici. […] questa campagna non fa più distinzione tra ribelli armai e combattenti nonviolenti, o leader sindacali o difensori di diritti umani”.
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Ma queste esecuzioni non sono certo le prime del Presidente in carica dal 2016, tristemente noto per la scia di sangue provocata in questi anni con la scusa della lotta alla droga e di quella ai comunisti. La violenza non sembra infatti avere fine. In un memorandum, il Dipartimento dell’interno e del governo locale ha ordinato ai suoi direttori regionali e al segretario regionale della regione autonoma di Bangsamoro, nel Mindanao musulmano, di elencare i nomi dei dipendenti governativi che hanno dimostrato di essere membri di gruppi considerati progressisti. I due gruppi citati sono l’Alliance of Concerned Teachers e la Confederation for Unity, Recognition, and Advancement of Government Employees, che difendono i diritti degli insegnanti e dei lavoratori del governo. Senza presentare prove, il Dipartimento li ha etichettati come gruppi terroristi comunisti.
Il memorandum è arrivato pochi giorni dopo che è stato scoperto che la polizia ha tentato di profilare gli avvocati presunti comunisti nella città di Calbayog, atto che è stato condannato e ha portato al licenziamento del capo della polizia della città.
Le nefandezze del governo Duterte sono ben note. Entro il 2021 la Corte Internazionale dell’Aja dovrà decidere se il Presidente può essere processato per crimini di guerra, proprio per le esecuzioni extra-giudiziarie di massa che caratterizzano il suo mandato.
La ong Global Witness, che ogni anno stila la classifica dei paesi in cui lottare per i diritti dell’ambiente e della terra è più pericoloso, aveva individuato nelle Filippine il Paese in cui, insieme alla Colombia, sono state compiute più violazioni nei confronti dei difensori della terra nel 2019. Le organizzazioni di diritti umani hanno calcolato circa 27mila morti in esecuzioni extra-giudiziarie in cinque anni. Le elezioni presidenziali si svolgeranno nel Paese nel 2022.
*In copertina un’immagine di Rodrigo Duterte tratta da Flickr
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