Nuova Zelanda: stretta alle armi

Wellington promette una revisione  immediata sulle regole di vendita ai privati in risposta alla tragedia di Christchurch. E si riaccende il dibattito internazionale sul porto privato di strumenti di morte

di Maurizio Sacchi

Mentre si seppelliscono le 50 vittime del massacro di Christchurch, Jacinda Arden, primo ministro della Nuova Zelanda, ha dichiarato appena dopo la strage  che, entro pochi giorni, il parlamento avrebbe rivisto con regole più strette  la vendita e la concessione del porto d’armi. Tornando sull’argomento, ieri ha chiarito che La Nuova Zelanda bandirà tutti i tipi di armi semiautomatiche e fucili d’assalto: dunque tutte le armi di carattere militare che non potranno più essere possedute da civili. Tutto ciò ha riportato all’attenzione dei media la questione delle “guerre interne”, che mietono ogni anno centinaia di migliaia di vittime nel mondo, causata dalla diffusione di massa delle armi da fuoco. La nuova legge dovrebbe essere approvata entro le prime due settimane di aprile.

In realtà, la legislazione in Nuova Zelanda prevede già sette controlli diversi, prima di poter acquistare un’arma anche se ora verranno inaspriti. Negli Stati Uniti invece – per esempio –  è possibile entrare in un negozio specializzato, e uscirne, meno di un’ora dopo, con l’arma già in pugno. Le statistiche dell’Unodc (l’Ufficio delle nazioni unite per le droghe e il crimine) evidenziano un rapporto diretto fra la diffusione delle armi e gli omicidi, marcando una chiara differenza fra i Paesi che la permettono, e quelli che considerano il possesso di un’arma una concessione speciale, e da rilasciare solo in via eccezionale. Questo rapporto emerge fra il confronto fra il numero di armi e di morti da loro causate su 100mila abitanti.

La Nuova Zelanda, prima della tragedia del 15 marzo, aveva un tasso di omicidi fra i più bassi del mondo, appena superiore a 1. Negli Stati Uniti, ad esempio, il tasso di morti da arma da fuoco è, di anno in anno, da 5 a 6 volte superiore. Questo arcipelago, una delle realtà più isolate geograficamente al mondo, è noto come un luogo pacifico e provinciale, apparentemente impermeabile alle tensioni che sconvolgono il mondo. Fino a quando Brenton Tarrant non ha impugnato il fucile. 

Mentre la signora Arden si impegna a trasmettere un’immagine del suo Paese come luogo di accoglienza e di tolleranza, c’è chi mette in dubbio questa visione idilliaca, in cui Tarrant avrebbe fatto irruzione come una variabile imprevedibile. O originata e diretta da fuori. La testimonianza di una giornalista di Al Jazeera di origine afghana, e che ha risieduto come profuga in Nuova Zelanda rivela invece un clima di sopportazione paternalistica nei confronti dei musulmani, che si esprime in episodi quotidiani di provocazione e discriminazione.

Anche le statistiche dell’Unodc dicono che, se il tasso di omicidi è basso, la proprietà di armi private fra i Kiwis è invece fra le più alte al mondo, con circa trenta armi ogni 100mila abitanti. E una foto e un servizio sul Guardian del 18 marzo mostrano un fornitissimo negozio di armi proprio a Christchurch. E si cita la testimonianza di un ex militare sul club ti tiro frequentato da Tarrant, i cui membri si aggiravano armati in mimetica attorno al poligono, in una specie di gioco di guerra, e in atteggiamento “emozionalmente instabile”. Insomma, tutt’altro che un clima idilliaco. Nel 2017, l’allora parlamentare e attuale ministro degli Esteri Winston Peters aveva commentato così l’attacco del London Bridge:

“Quello che sta accadendo è che famiglie, amici e confidenti (dei terroristi) hanno scelto il silenzio, piuttosto che denunciare questi mostri. Questa potrebbe essere la cultura di Damasco, ma non è la nostra, non è certamente accettabile in Nuova Zelanda: e la comunità islamica deve fare pulizia in casa propria, respingendo questi mostri, iniziando dalle proprie famiglie “.

Il massacro e le sue cause sono ora una ragione di un grave incidente diplomatico con la Turchia di Erdogan. In un infuocato discorso pubblico, il premier ha dichiarato che “di fronte all’attacco che ci arriva da 16.500 chilometri di distanza”, la Turchia non resterà passiva, e che coloro che sperano di “ribattezzare Istanbul come Costantinopoli” “saranno rimandati in patria chiusi nelle bare”. Un riferimento alle rivendicazioni identitarie che vorrebbero un Europa senza Islam. Ma soprattutto un esplicito riferimento alla I Guerra mondiale, quando la forza di spedizione australo-neozelandese (Anzac) lasciò migliaia di morti in terra turca. E che ora vengono dipinti come crociati antiislamici.

Il 25 aprile è l’ “Anzac Day”, in cui si celebra la memoria dei caduti di Gallipoli, soldati giunti in Turchia dall’estremo opposto del mondo, a morire a migliaia in un assedio impossibile, celebrato anche da un famoso film di qualche anno fa. Il valore mostrato da questi combattenti, e l’assurdità del loro sacrificio, mandati a morire senza speranza di vittoria contro postazioni imprendibili, aveva fatto di questa data una occasione di memoria e di riflessione sull’assurdità e crudeltà della guerra. Oggi rischia di assumere il significato opposto.

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