di Carlotta Zaccarelli
Tra le 9 e le 11 del mattino di sabato scorso, alcuni trasportatori appartenenti al gruppo Organización Regional de Cafeticultores de Ocosingo (Orcao) hanno sparso benzina e dato alle fiamme due edifici del Centro de Comercio Nuevo Amanecer del Arcoiris usati dagli zapatisti per stoccare e macinare caffè e mais. Secondo alcuni ricostruzioni giornalistiche, prima di provocare gli incendi, gente ldella Orcao hanno saccheggiato le sementi presenti nei depositi.
Gli scontri tra i due gruppi non sono una novità: vanno avanti almeno dal 2001, quando i membri della Orcao hanno deciso di lasciare la resistenza zapatista alla quale presero parte nel 1994 per partecipare ai programmi di regolarizzazione territoriale disegnati dai governi federale e statale. Così facendo, hanno rivendicato il possesso di campi che fanno parte delle fincas (aziende agricole) occupate dall’Ezln nei giorni della sua sollevazione intorno a Ocosingo. Gli attriti tra Orcao e zapatisti sono nati proprio dalle dispute territoriali legate a questi spazi agricoli: gli uni affermano di averli acquistati legalmente attraverso i fondi statali, gli altri continuano a occuparli e lavorarli. Il tavolo di dialogo al quale siedono da anni le due parti non ha finora portato ad alcun risultato concreto.
Dall’inizio dell’anno, Orcao ha chiesto più volte alle autorità locali e nazionali l’intervento della Guardia nazionale e della polizia per disarmare gli zapatisti e rientrare in possesso dei terreni che considerano loro. Fino ad oggi, non c’è stata nessuna risposta. Allo stesso modo, però, non c’è stato nessun intervento istituzionale per fermare la violenza che l’Orcao ha perpetrato contro le comunità zapatiste. Secondo il Congreso Nacional Indígena , l’organizzazione dei coltivatori di caffè, sarebbe equiparabile a un gruppo paramilitare che minaccia da lungo tempo i popoli in resistenza per bloccare i tentativi di organizzazione e autonomia. Nella sua denuncia, il Congresso ha esplicitamente responsabilizzato il partito di Amlo (Morena) e il Governo del Chiapas e Federale per l’impunità garantita all’Orcao.
Questo episodio si inserisce in un contesto di crescente violenza contro i popoli originari nello Stato del Chiapas. La zona più pericolosa in questo senso è quella settentrionale, Los Altos de Chiapas. E la situazione più preoccupante è quelle delle tredici comunità indigene tsotsiles che risiedono nel municipio di Aldama. Il Centro di Diritti Umani Fray Bartolomé de las Casas (Frayba), che monitora la violazione dei diritti umani nella zona, ha denunciato che dall’inizio di agosto queste comunità hanno subito 56 attacchi da parte di gruppi paramilitari provenienti dal vicino comune di Chenalhó. Le aggressioni, tutte con armi di grosso calibro, non sono state fermate dalla polizia locale e hanno provocato lo spostamento forzato delle famiglie a cui sono dirette: si tratta di 30 gruppi familiari, per un totale di circa 150 persone. Alcune hanno trovato rifugio in altri piccoli centri abitati, altre sulle montagne.
Anche in questo caso, la situazione è parte di un conflitto più esteso e che ha le proprie radici in dispute territoriali. Da almeno due anni, infatti, i campesinos indigeni degli Altos si scontrano con gruppi paramilitari per il possesso di 60 ettari di terreno. Finora, i 316 confronti armati rilevati hanno causato 7 morti e 16 feriti. Tra questi, l’ultima in ordine cronologico è quella di María Luciana Lunes Pérez, una bambina di 13 anni raggiunta da due pallottole mentre lavorava al telaio dentro casa. Le ferite hanno richiesto l’intervento in ospedale, ma le cure prescritte alla ragazzina costano troppo per la sua famiglia: costretti lontano dai suoi campi, il padre non può guadagnare nulla per sostenere la famiglia. La lontananza dai propri terreni agricoli si traduce in fame, per tutti: il Frayba ha denunciato come per queste comunità esista il pericolo concreto di cadere vittima anche di carestie.
La condizione di continua esposizione alla violenza di queste donne, uomini e bambini è preoccupante. I membri delle comunità costrette a muoversi hanno dichiarato che, se gli attacchi continueranno, dovranno difendersi. Hanno denunciato che i gruppi paramilitari che li attaccano sono operativi dal 1997 come controinsorgenza per bloccare i progetti di autonomia dei popoli indigeni, e degli zapatisti in particolare. Il rischio è quello di una nuova Acteal, un nuovo massacro come quello che causò la morte di 45 indigeni tsotsiles (più 4 bambini non ancora nati) riuniti nella chiesa della loro comunità e attaccati da paramilitari – probabilmente perché simpatizzanti dell’Ezln. Era, appunto, il 1997 e ad oggi, il delitto resta impunito. Ma la voce dei sopravvissuti e dei familiari delle vittime, della comunità non si è spenta né stancata di chiedere giustizia per sé e per gli altri popoli originari in resistenza.
Il 22 giugno scorso, la loro organizzazione civile chiamata Las Abejas de Acteal ha accusato le autorità di ignorare volutamente le difficoltà di coloro che hanno dovuto lasciare le loro terre per paura di morire. Le ha accusate di utilizzare lo spostamento forzato di individui e gruppi come metodo di castigo sistematico per punire le minoranze e le organizzazioni che si oppongono alle azioni del Governo ritenendo la sua amministrazione lesiva dei diritti loro e della nazione messicana. Due giorni dopo, Las Abejas hanno ripreso la parola per sottolineare che l’atto di riconoscimento formale con il quale lo Stato messicano riconosce la sua responsabilità nel massacro del ’97 non è sufficiente per chiudere la questione. Quello che esigono è una giustizia che rispetti il loro dolore e la loro forza.La loro è, ancora una volta, la richiesta che sempre risuona in quelle terre indigene: dignità.