di Giovanni Mennillo
All’entrata della città si legge ‘Stalingrado’ su un cartello stradale, mentre in alto spicca un enorme cartellone che recita “Сталинград. родина победа” (“Stalingrado. La vittoria della patria”). Nelle ultime settimane Volgograd, città del Sud-Ovest della Russia, sembra essere tornata al suo passato sovietico. La città si chiamò Stalingrado fino al 1961 quando cambiò nome nell’ambito delle politiche di de-stalinizzazione di Nikita Chruščëv.
Qui, il 2 febbraio 1943, si concluse una delle battaglie più cruente della Seconda Guerra Mondiale, un momento decisivo per la sconfitta del nazismo. Per questo motivo in occasione di questa data, ormai da qualche anno, la città torna per un giorno ad essere ‘Stalingrado’. Oggi ricorre l’Ottantesimo anniversario, da settimane si sta preparando la tradizionale parata militare. Si è recato in città anche Vladimir Putin, che ha incontrato i veterani e portato i fiori sulle tombe dei caduti. Eppure, le celebrazioni e il ‘ritorno’ a Stalingrado per un giorno hanno un sapore diverso quest’anno.
Mentre nella ‘nuova’ Stalingrado si ricorda la sconfitta del nazismo, a meno di 500Km, in Ucraina, si combatte una guerra sotto le finte bandiere della ‘de-nazificazione’. Nel clima di profondo nazionalismo indotto dalla guerra russo-ucraina e nel contesto di scontro tra blocchi in atto, il nome “Stalingrado”, che dovrebbe rievocare la sconfitta di Hitler e il sacrificio di un intero popolo per la propria libertà, rievoca invece un passato sovietico che ha solo il volto dell’imperialismo.
Stalingrado è per il popolo russo tante cose. Innanzitutto, è una grande tragedia nazionale e al tempo stesso una tragedia ‘familiare’. Nel 1939 Volgograd contava circa 500.000 abitanti, qui morirono oltre 400.000 russi. Si combatté per 6 mesi, casa per casa, venne chiamata dai tedeschi “guerra dei topi”. La città fu completamente rasa al suolo tanto che è stato lasciato un edificio in rovina, il Мельница Гергардта (Mulino di Gerhardt), a simboleggiare uno dei pochi edifici rimasti in piedi. In casa molte famiglie custodiscono con religiosa premura le foto dei propri cari in abiti militari. Il ricordo della tragedia è vivo e tangibile, plasmato nella statua monumentale allegorica di 85 metri che sovrasta l’intera città sulla collina di Mamaev Kurgan, la Родина-мать зовёт (Statua della Madre Russia). Qui è stato creato un enorme mausoleo dedicato alla battaglia di Stalingrado, dal fortissimo impatto emotivo, custode dei nomi di migliaia di soldati caduti. Non si tratta solo di Memoria collettiva, ma di rispetto per i propri cari che hanno donato la libertà: questo è il sentimento diffuso nella popolazione.
Stalingrado è un grande mito fondativo del popolo russo, simile per certi versi al topos della Nazione ottocentesca forgiata nel sangue dei caduti, ma è anche il momento di Liberazione dal nazismo e la conquista delle libertà, ed è al tempo stesso un fatto privato, familiare, generando religiosa gratitudine verso i propri cari. Alla grande tragedia, nazionale e privata al tempo stesso, fa da contrappunto quasi naturale quel senso di dovere e amore verso la Patria-famiglia.
Ed è così che la battaglia di Stalingrado viene plasmata in qualcos’altro. In età sovietica la città di Volgograd non cambiava denominazione, questa usanza fu introdotta nel 2013 da Vladimir Putin, e non è un caso. La città cambia nome in nove date simboliche legate alla Seconda Guerra Mondiale, tra cui appunto il 2 febbraio. Negli anni diverse proposte hanno tentato di ritornare definitivamente al vecchio nome: recentemente, nel 2013, il Partito Comunista raccolse oltre 100.000 firme per sostenere la causa, mentre Russia Giusta, nel 2021, svolse un referendum con picchetti in tutto il Paese raccogliendo oltre il 60% di consensi. Tutto questo è il sottotesto di un vero e proprio revival del nazionalismo russo.
La battaglia di Stalingrado, e più in generale la ‘Grande Guerra Patriottica’, è stata utilizzata in particolare da Putin all’interno di un preciso disegno di utilizzo politico della storia. Un vero e proprio progetto nazional-patriottico che utilizza simboli e cimeli del passato per creare una mitopoiesi della Russia post-sovietica. È servita a ostacolare la disgregazione provocata dalla presenza di tante etnie e culture dopo la fine dell’URSS, a rinsaldare una nuova identità nazionale, a giustificare il potere interno e l’aggressivo dinamismo esterno. È servita come precedente storico del cosiddetto ‘accerchiamento’ dell’Occidente, il monito alla necessaria difesa della tanto vituperata “integrità territoriale”. La memoria e il rispetto per i propri morti in particolare è diventato un forte elemento identitario.
Il passato sovietico ha ovviamente un’importanza cruciale. Simboli e immaginari sovietici hanno ancora un forte impatto su una fetta della popolazione. Secondo alcuni sondaggi dell’organizzazione indipendente Levada Centr, nel 2020 il 75% dei russi rimpiangeva la vecchia Unione Sovietica. L’URSS evoca senso di appartenenza, l’immagine della superpotenza, è simbolo di unità nazionale e di identità comune, ma evoca anche forme di nostalgia per un modello socio-economico che per alcuni non si è rivelato peggiore di quello oligarchico e liberista che lo ha succeduto. Il sovietismo è un potente simbolo identitario e un forte precedente storico che entra nel Pantheon della nuova Nazione russa, condividendo l’altare con lo zarismo e il vecchio imperialismo, in un paradossale sincretismo pan-russo.
Da qui la scelta di Putin di valorizzare gli elementi unificanti del passato sovietico, come appunto il culto dei martiri della Grande Guerra Patriottica: Stalingrado, Leningrado, la Festa della Vittoria, tutti orpelli da mettere sulla grande narrazione neo-patriottica a seconda delle circostanze. E in quest’ottica non sembra anacronistico tornare al nome ‘Stalingrado’, o inaugurare come è avvenuto nei giorni scorsi una statua dedicata a Stalin. Il 2 febbraio rappresenta l’eroica resistenza del popolo russo, la vittoria immanente, il martirio, la riconquista della libertà, la lotta al nazismo. Tutto sembra essere il corollario perfetto per giustificare la narrazione sull’odierna guerra in Ucraina. La parata del 2 febbraio diventa la coreografia perfetta che attendeva solo un interprete in play-back: “L’ideologia del nazismo – ha detto Putin – nella sua forma moderna rappresenta di nuovo una minaccia per la Russia. È incredibile, ma siamo di nuovo minacciati da carri armati Leopard tedeschi. Siamo ancora costretti a respingere l’aggressione dell’Occidente collettivo”
Poi un ponte tra passato e futuro: “Tutta la nostra gente, tutti noi, siamo cresciuti e abbiamo assorbito le tradizioni del nostro popolo dal latte materno. Generazioni di vincitori che hanno creato il nostro paese con il loro lavoro, sudore e sangue che sono passati a noi come eredità. La fermezza dei difensori di Stalingrado è la guida morale ed etica più importante, e i nostri soldati e ufficiali le sono fedeli. La continuità di generazioni, valori, tradizioni: tutto questo è ciò che distingue la Russia, ci rende forti e fiduciosi in noi stessi, nella nostra correttezza e nella nostra vittoria”.
Un sentimento nazionalistico si stia infiltrando da anni nei nervi della società russa, sfruttando talvolta simboli e immaginari che appartengono a contesti diversi. Il caso ‘Stalingrado’ dimostra la pervasività del discorso nazionalista, che utilizza talvolta forme passive e infime di propaganda. Si sta diffondendo certamente in certi ambienti una ideologia nazionalista aggressiva e pericolosa, ma una grossa fetta di popolazione crede realmente che in Ucraina si stia combattendo il nazismo, che sia necessario difendere la Patria da una nuova aggressione e vede il Donbass come una nuova tragedia nazionale che non può essere ignorata. Che sia ingenuità, sudditanza, o scarsa maturità dell’opinione pubblica, resta il fatto che una parte del popolo russo si senta in dovere di difendere la memoria dei propri cari in questo ‘nuovo’ 2 febbraio.
*In copertina un cimitero militare a Volvograd dedicato ai caduti della battaglia di Stalingrado (foto di Giovanni Mennillo)