Ruanda: il caso di Félicien Kabuga

Il 7 giugno 2023 il Tribunale penale internazionale per il Ruanda ha deciso di stralciare il procedimento per l’aggravamento dello stato di salute dell'ex primula rossa. Ma la verità storica corre il rischio di sommare un altro vuoto sul genocidio

Il 7 giugno scorso il Tribunale penale internazionale per il Ruanda (Tpir) ha deciso di stralciare il procedimento per l’aggravamento dello stato di salute di Félicien Kabuga che non può più prendere parte alle udienze e nemmeno in futuro sarà in grado di farlo

di Matteo Dominioni*

Il 29 agosto 1998, il Tpir aveva incriminato Kabuga e spiccato un mandato di arresto. La denuncia venne formalizzata per i seguenti capi d’imputazione: cospirazione a commettere genocidio, genocidio, complicità in genocidio, incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio, crimini contro l’umanità (persecuzione e sterminio). Considerato uno dei più pericolosi ricercati su scala globale, l’Fbi emise una taglia di 5 milioni di dollari e furono organizzate missioni di intelligence che si rivelarono essere sempre un buco nell’acqua. Rimase una primula bianca ancora a lungo, grazie a una finta identità, documenti falsi e appoggi ben ramificati. Kabunga è poi stato arrestato il 16 maggio del 2020 in pieno lockdown.

Ufficialmente i media hanno parlato di una brillante operazione condotta dalle autorità francesi di concerto con l’Aia. È più probabile si sia trattato di un colpo di fortuna, avvenuto in un momento in cui il controllo sociale sulla popolazione raggiunse livelli estremi. Il 30 settembre la Cassazione rigettò l’opposizione all’estradizione presentata dalla difesa. Il 26 ottobre Kabuga venne trasferito all’Aia, dopo una veloce udienza nella quale si professò innocente. Il 24 febbraio 2021 il Procuratore presentò il secondo atto d’accusa relativo a 45 eventi e inoltrò la richiesta di ammettere al dibattimento circa 70 testimoni. La Camera di primo grado del Tpir per monitorare lo stato di salute di Kabuga nominò tre medici indipendenti, uno per l’accusa e un altro per la difesa che presero parte a tre udienze (31 maggio, 1 giugno e 7 giugno 2022) durante le quali vennero discusse solamente le relazioni mediche. Il 23 giugno la corte stabilì essere idoneo lo stato di salute dell’imputato ad affrontare un procedimento. Nei giorni del 29 e 30 settembre si aprì il processo con le dichiarazioni di apertura e il 5 ottobre l’accusa cominciò a presentare le prove. A causa delle precarie condizioni di salute però la corte decise di tenere le sessioni del tribunale tre giorni alla settimana (martedì, mercoledì e giovedì) per due ore al giorno. Il 7 giugno 2023, l’Aia ha deciso di stralciare il procedimento per l’aggravamento dello stato di salute dell’imputato che non può più prendere parte alle udienze e nemmeno in futuro sarà in grado di farlo. In sostanza il caso è stato archiviato.

Verità giuridica e verità storica

Sarebbe disumano sottoporre ad un processo una persona incapace di intendere e volere. Questo è fuori discussione, non solo per ragioni umanitarie contingenti, ma soprattutto perché minerebbe dei principi basilari dello stato di diritto. Accantonare del tutto il processo, non fare chiarezza su certe vicende come i rapporti tra l’imprenditoria ruandese e l’estero o il traffico di armi, però è una indicibile ingiustizia perpetrata contro le vittime e una decisione di stampo colonialista perché imposta da fuori, dall’estero. La giustizia ruandese del dopo genocidio che si manifestò con la straordinaria esperienza dei gacaca (una componente del sistema giudiziario ruandese ndr), pose al centro delle procedure la ricerca della verità. L’archiviazione del processo contro Kabuga assume un significato diametralmente opposto.

A questo punto, è poco importante avere una verità giuridica ma è fondamentale avere una verità storica. Per far questo, un processo andrebbe fatto lo stesso pur in assenza dell’imputato perché, tutto sommato, è importante ricostruire i fatti tramite le testimonianze presentate dall’accusa e dalla difesa non avere una condanna. Stiamo parlando di un genocidio, un evento eccezionale che deve essere affrontato in modo altrettanto eccezionale. Per evitare che i crimini commessi da Kabuga finiscano nell’oblio sarebbero utili due cose: 1. il governo ruandese o qualche Ong dovrebbero organizzare un grande gacaca in cui far prendere la parola a vittime e carnefici; 2. dovrebbe decadere ogni vincolo di riservatezza sulla documentazione raccolta negli anni.

Chi è Félicien Kabuga

Félicien Kabuga è nato nel 1933 nel villaggio di Nyange, prefettura di Byumba, ad un centinaio di chilometri di distanza dalla capitale ruandese Kigali. Di povere origini contadine, da giovanissimo cominciò a vendere sigarette e abiti di seconda mano presso i mercati della regione. Trasferitosi nella capitale, investì i guadagni in campi di tè e caffè i cui proventi vennero a loro volta reinvestiti nel settore immobiliare e in attività turistico/alberghiere e in un supermercato. Negli anni diventò uno degli uomini più ricchi e influenti del paese, legandosi coi vertici politici: nel 1993 una delle sue figlie sposò il primogenito del presidente Juvénal Habyarimana, inoltre era il suocero del ministro della pianificazione Augustin Ngirabatware.

Nei mesi che precedettero il genocidio del 1994, in tutto il Paese proliferarono le armi e aumentarono progressivamente atti di violenza, aggressioni, provocazioni. Tra il gennaio 1993 e il febbraio 1994 le autorità ruandesi importarono 581 tonnellate di machete – il doppio degli anni precedenti – ovverosia 581.000 lame avendo ciascuna un peso di un chilo. Un ruandese hutu adulto su tre venne dotato di arma bianca. Uno dei maggiori acquirenti fu Félicien Kabuga che ottenne sette licenze per un valore complessivo di 25.000 dollari. L’unica fabbrica locale di machete era la Rwandex Chillington, una joint venture tra la Plantatio & General Investments inglese e la fabbrica di caffè Rwandex. Tra agosto e dicembre 1993 la Chillington vendette 16.000 machete a due dipendenti: Eugene Mbarushimana, segretario generale degli interhamwe e genero di Habyarimana, e François Brasa, fratello maggiore del leader Jean-Bosco Barayagwiza del partito Coalition for the defence of the republic. Félicien Kabuga divenne un organizzatore e un finanziatore degli interhamwe, la milizia hutu composta da sbandati agli ordini del governo di transizione. Organizzò campi di addestramento, distribuì divise, armi bianche e armi da fuoco, assegnò prebende alle bande, tenne riunioni organizzative, diramò ordini sia provenienti dalla capitale, sia di sua iniziativa.

Insieme ad un gruppo di ufficiali, autorità politiche e membri dell’amministrazione nei primi giorni di aprile 1994, in pieno genocidio, si staccò dall’akazu – componente più radicale fra gli estremisti composta da uomini di fiducia della moglie di Habyarimana – e si ritirò nel lussuoso Hotel Meridien nella città di Kibuye da dove venivano mantenuti i contatti col governo golpista di transizione (Gouvernement Intérimaire Rwandais – Gir) sulla situazione delle finanze, dei rapporti con l’estero e persino delle strategie militari. Félicien Kabuga divenne un punto di riferimento importante per la milizia. I membri del suo gruppo crearono un fondo speciale per finanziare la milizia nel quale versarono i primi contributi, dopodiché scrissero al Gir affinché si facesse promotore dell’iniziativa sia sul territorio nazionale che all’estero. I contributi sollecitati da Kabuga alla sua cerchia ristretta fruttarono 140.000 dollari che vennero suddivisi tra le varie prefetture e il ministero degli interni.

Agirono ai suoi ordini le milizie interhamwe operanti nell’area di Gisenyi, cittadina del distretto di Gisavu praticamente attaccata alla città di Goma nella Repubblica democratica del Congo (all’epoca Zaire), e Kimironko, quartiere di Kigali. Dobbiamo però considerare che queste bande avevano un discreta mobilità dato che avevano a disposizione gli autobus delle compagnie pubbliche di trasporti, le jeep e i pick-up delle aziende agricole e artigiane. Sono molte le testimonianze che ricostruiscono la presenza di queste milizie in aree lontane dalle zone d’origine. Nelle settimane del genocidio il compound attorno all’abitazione di Kabuga divenne un deposito di armi e un attendamento di miliziani. Fu l’ispiratore, il fondatore e il finanziatore di Radio télévision libre des mille collines che dall’agosto del 1993 cominciò a diffondere messaggi di odio, dibattiti viziati e canzoni propagandiste. Altri sostenitori dell’emittente furono Alphonse Ntilivamunda, cognato del presidente Habyarimana e importante funzionario del ministero dei lavori pubblici, Augustin Ngirabatware, ministro della pianificazione e cognato di Kabuga e André Ntagerura, ministro delle telecomunicazioni. Finanziò anche Kangura, pubblicazione mensile con una tiratura fra le 1.500 e le 3.000 copie che a partire dal 1990 diffuse messaggi d’odio tra cui i Dieci comandamenti hutu comparsi sul sesto numero.

Nel giugno del 1994, di fronte all’avanzata del Fronte patriottico ruandese, temendo rappresaglie, come altre migliaia di genocidiari fuggì dal paese e si recò in Svizzera da dove, dopo un mese, venne espulso, dopodiché fuggì a Kinshasa, capitale dello Zaire, dove sistemò gli affari rimasti in sospeso. Qualche mese dopo si trasferì in Kenia e, grazie a coperture politiche che gli garantirono un permesso di soggiorno, investì nel settore immobiliare e nell’import/export aprendo con il figlio la Nshikabem Agency. In Kenia grazie al sostegno di una consolidata rete accrebbe notevolmente ricchezze e investimenti, ottenne coperture politiche e finanziarie che gli permisero di trasmettere capitali all’estero e di crearsi appoggi per sparire in previsione di essere chiamato a rispondere dei propri crimini.

 * storico, il suo ultimo lavoro è “I prigionieri di Menelik 1896-1897. Storie di soldati italiani nella guerra d’Abissinia

La foto di Kabuga è tratta dal sito del Tribunale ad hoc. In copertina uno scatto di Maxime Niyomwungeri (Unsplash). Sotto, il logo di Rtlmc

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