TalebanWeb, la sfida digitale dei turbanti

Com'è cambiato il modo di comunicare della guerriglia. Un'assalto al web iniziato diversi anni fa

di Emanuele Giordana

Recentemente si è diffuso l’allarme sulla possibilità che i talebani avranno di accedere ai sistemi e ai database che gli americani hanno costruito in Afghanistan per raccogliere informazioni sulle persone. Ammesso che i tecnici della guerriglia in turbane riescano ad arrivare ai codici di accesso e ammesso che i database siano fatti bene, bisognerà vedere che uso ne faranno: l’ennesima nebulosa di un movimento in divenire. Quel che è certo è che i Talebani, assai meno rozzi di quanto non si pensi, ci sanno fare con l’informatica. Cui hanno collegato una buona capacità di comunicazione articolata e duffusa.

Alemarah, il sito ufficiale dell’Emirato islamico d’Afghanistan (Eia), attraverso il quale i Talebani hanno contrastato col loro punto di vista il racconto della guerra, non è più raggiungibile. Non è la prima volta che succede e, negli anni, i Talebani hanno cambiato account, migliorato i sistemi di difesa e soprattutto affinato le tecniche di comunicazione in cinque lingue: pashtu, dari, arabo, urdu e inglese. Il sistema di difesa, paradossalmente, è affidato a CloudFlare, una società con sede a San Francisco che protegge i siti web dagli attacchi informatici. Quanto a WhatsApp, l’azienda ha spiegato al Washington Post quanto già ribadito da Facebook: “Siamo obbligati ad aderire alle leggi Usa sulle sanzioni, ciò include il divieto di account che sembrano rappresentarne ufficiali dei Talebani”. Ma bypassare WhatsApp è abbastanza semplice e FB pullula di personaggi filotalebani (l’Eia in quanto tale però non è presente), Twitter invece non ha posto veti anche perché – spiegava il Post – se il Dipartimento di Stato ha designato i talebani pakistani (Ttp) un’organizzazione terroristica, non ha applicato la stessa etichetta ai talebani afghani pur se questi sono nella lista nera dell’Ufficio per il controllo dei beni esteri del Dipartimento del Tesoro.

Ma quando è cominciata la scalata ai social e al web in generale da parte di un’entità che impiccava le televisioni, proibiva Internet e la riproduzione delle immagini umane? Alemarah nasce nel 2005 e, secondo la Bbc, tutti i contenuti (scritti, audio e video) erano supervisionati dalla commissione culturale guidata dal portavoce Zabihullah Mujahid, che si è visto solo da poco in carne ed ossa. Quanto al suo primo account Twitter, era stato sospeso dalla società, ma il suo nuovo account – attivo dal 2017 – conta più di 371.000 follower. Sicuramente sui primi contenuti deve aver messo il suo peso anche l’attuale ministro degli Esteri, quell’Amir Khan Mutaqqi, già a capo della segreteria dell’emiro Haibatullah Akhundzada, membro della squadra negoziale di Doha ed ex ministro della Cultura, dell’istruzione e dell’informazione durante il primo emirato.

La storia comunque inizia ben prima del 2005: addirittura nel 1998 con un sito “primitivo” (www.taleban.com), spiega Emerson Brooking che per Atlantic Council (think tank americano nato negli anni Sessanta) ha dedicato alla storia dei Web Talebani una dettagliata ricerca. Tra il 2002 e il 2009 però si affinano le armi mediatiche: salta il bando sulle figure ma, pur avendo come modello il racconto di altri gruppi radicali, le immagini si staccano dalle forme più plateali come quella di mostrare le decapitazioni in stile Isis (non le fucilazioni però). E mentre un messaggio ancora rozzo viene affidato al web, la propaganda si serve anche delle shabnamah (“lettere notturne”), consegnate con il favore delle tenebre. Il tono è sempre bellicoso, vittorioso e autoglorificante. Già nel 2008, a tre anni dalla nascita di Alemarah, secondo International Crisis Group “i Talebani hanno creato un sofisticato apparato di comunicazione” (è l’anno in cui la direzione passerebbe a Zabihullah Mujahid) che si nutre di sfumature raffinate come spiega Neil Krishan Aggarwal nel suo The Taliban’s Virtual Emirate (2016), in cui si concentra sulla creazione del messaggio culturale che si focalizza sulla religione negli scritti in arabo e inglese, sul nazionalismo nelle citazioni da fonti dari e sul regionalismo nei testi urdu. Dunque un messaggio più sofisticato rispetto a quanto riusciamo a capire a prima vista.

Una nuova fase, secondo Brooking, va dal 2009 al 2017 ed è caratterizzata dall’assalto ai social: “Cercando di espandere la portata dei loro video i Talebani raggiungono YouTube nel 2009. Aggiungono anche un pulsante di condivisione FB sul sito e nel 2011 pubblicano regolarmente aggiornamenti su FB e Twitter”. Con gli assalti a Kunduz (Nord) tra il 2015 e il 2016, inaugurano filmati e selfie realizzati dai combattenti: servono a contrastare le rassicurazioni della Nato sull’offensiva e a dimostrane le evidenze. E’ la reazione alla controffensiva del nemico sui social su cui ha fatto pressione per chiudere gli account tanto che, nel 2016, nasce persino un’app in lingua pashto.

I tempi cambiano: nel 2018 Ashraf Ghani annuncia su FB un cessate il fuoco di tre giorni che porta alla prima tregua nel Paese dal 2001. All’epoca circa il 40% delle famiglie afgane ha accesso a Internet (ora ci sono 8,6 milioni di utenti secondo Bbc) e il 90% ha un dispositivo mobile: i social sono ormai – conclude Brooking – un “ pilastro della vita civile afgana”. Internet e i social sono diventati insomma un’arma di propaganda ineludibile. Ma adesso bisogna vedere quanto la censura inciderà sulla scelta “modernista” dei Talebani 2.0 quando a usare il web è l’opposizione.

In copertina foto di Markus Spiske

All’interno, delegazione talebana. Il secondo da sinistra è il Vicepresidente mullah Ghani Baradar. Sotto la bandiera dei Talebani

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