di Alessandro De Pascale
Il Kurdistan è sotto assedio. Da giorni, in un’inedita alleanza, Turchia e Iran bombardano dal cielo con raid aerei la parte irachena di questo “non-Stato” (sotto tiro di Ankara c’è anche quella siriana). Intanto nel Kurdistan iraniano prosegue la dura offensiva mirata a cercare di spegnere le proteste pro-democrazia che coinvolgono l’intero Paese dallo scorso 16 settembre. Nella città di Mahabad (300mila abitanti), alla quale sarebbe stata tolta persino l’energia elettrica (internet è già stato oscurato da tempo in tutto il Paese), sono entrati i carriarmati, i pashdaran equipaggiati con armi pesanti (agirebbero casa per casa, sparando ad altezza uomo), mentre nel cielo sono all’opera gli elicotteri militari. Fin dall’inizio delle proteste, il regime iraniano aveva portato in Kurdistan parte della propria aviazione.
Le manifestazioni erano del resto iniziate in seguito alla morte di Masha Amini, la ragazza 22enne curdo-iraniana arrestata da parte della polizia morale per non aver indossato correttamente il velo e deceduta tre giorni dopo in ospedale. In questi oltre due mesi di proteste, secondo le Nazioni Unite, in 25 province iraniane sulle 31 che compongono il Paese, sono state uccise oltre 300 persone (tra cui più di 40 minori). Numeri leggermente maggiori quelli forniti dalla organizzazione non governativa iraniana Iran Human Rights (Ihr), con sede a Oslo, che parla di almeno 378 vittime, tra cui 47 bambini. Gli arresti, ancora secondo l’Onu, sarebbero “migliaia”, tra cui “40 cittadini stranieri” ha dichiarato alla tv di Stato il portavoce della magistratura iraniana, Masoud Setayeshi. Su richiesta di Germania e Islanda, domani si riunirà il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, un organismo con sede a Ginevra che lavora a stretto contatto con l’Alto commissariato Onu per i Diritti Umani (Unhchr). L’obiettivo dell’incontro è valutare l’avvio di un’indagine internazionale sulla repressione delle proteste di massa in Iran.
Dalla notte di sabato, droni e missili degli ayatollah iraniani e caccia turchi del presidente Recep Tayyip Erdoğan stanno compiendo attacchi nel confinante Kurdistan iracheno. Ankara afferma di aver lanciato questa operazione, battezzata Claw-Sword, in risposta all’attentato esplosivo che il 13 novembre ha scosso Istiklal Avenue, centrale e affollata via pedonale di Istanbul, uccidendo sei persone e ferendone 81. Attacco che il governo turco attribuisce al Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e alle Unità di difesa del popolo (Ypg) siriane ritenute organizzazione gemella. Entrambe hanno fin dall’inizio negato qualsiasi responsabilità nell’attentato, respingendo anzi l’accusa al mittente. La prima persona sospettata e arrestata per l’attentato di Istiklal Avenue è Ahlam Albashir, la donna siriana che ha lasciato a volto scoperto di fronte alle telecamere di sorveglianza la borsa con l’esplosivo. Dalle prime ricostruzioni sarebbe originaria delle aree tra Aleppo e Afrin, sotto il controllo dei jihadisti usati da Ankara come supporto alle proprie truppe. Subito prima dell’attentato, la donna ha inoltre ricevuto una telefonata da Mehmet Emin İlhan, dirigente del Partito del movimento nazionalista (Mhp), principale alleato di Erdogan nel governo, il quale dopo l’interrogatorio è stato immediatamente rilasciato. Ancora secondo le indagini, Albashir avrebbe ricevuto l’esplosivo da un uomo chiamato Husam, arrestato nella città siriana di Azaz, anche questa sotto il controllo turco-jihadista.
A bombardare il Kurdistan iracheno, oltre alla Turchia, ci sono anche le Guardie rivoluzionarie iraniane, che avevano già compiuto analoghi attacchi la settimana scorsa. L’obiettivo dichiarato dagli ayatollah, sarebbero nel loro caso postazioni nell’Iraq del nord del Partito democratico del Kurdistan iraniano (Kdpi) e del gruppo curdo-iraniano Komala. Lunedì il ministero degli Esteri iracheno ha rilasciato una dichiarazione con la quale “respinge categoricamente e condanna fermamente (…) i ripetuti attacchi compiuti dalle forze iraniane e turche con missili e droni sulla regione del Kurdistan”, ritenendoli “una violazione della sovranità dell’Iraq e un atto che contravviene ai patti internazionali e alle leggi che regolano le relazioni tra i Paesi”. Ieri, al termine di un incontro avvenuto nella capitale irachena Baghdad, il premier Mohammed Shia al-Sudani e il presidente della Regione autonoma del Kurdistan iracheno Nechirvan Barzani, hanno rilasciato una dichiarazione congiunta con la quale “hanno enfatizzato la cooperazione per proteggere la sovranità dell’Iraq, respingere le ripetute violazioni e lavorare per impedire l’uso del territorio iracheno come piattaforma per attaccare qualsiasi Paese vicino”. Mentre per il Partito democratico del Kurdistan iracheno (Pdki), “questi indiscriminati attacchi arrivano nel momento in cui il regime terrorista in Iran non è in grado di fermare le dimostrazioni in corso nel Kurdistan”.
Sotto tiro da parte dei turchi c’è poi nuovamente anche la Rojava, il Kurdistan siriano. In questo caso, secondo testimonianze che arrivano direttamente dal campo, sarebbero stati “bombardati anche ospedali, scuole e altri obiettivi civili dentro e intorno a Kobanê (la città nota per i quasi 5 mesi di resistenza all’assedio dello Stato islamico, ndr)”, ha denunciato domenica il Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (Knk). Colpiti anche “il villaggio di Belûniyê a Shahba, a sud-ovest di Kobanê, che ora è popolato da sfollati curdi di Afrin (quelli cacciati dall’invasione turca del 2018, ndr), così come il villaggio di Teqil Beqil vicino a Qerecox a Dêrik nella parte orientale della Regione autonoma della Siria settentrionale e orientale. Aerei da guerra turchi hanno preso di mira anche il deposito di grano nella regione di Dahir al-Arab vicino a Zirgan e le aree dei monti Qendil e dei monti Asos nel Kurdistan meridionale (Iraq settentrionale)”, ha riportato ancora il Knk. Secondo quanto riferito dall’Osservatorio siriano per i diritti umani (organizzazione non governativa con sede a Londra), soltanto la prima notte di attacchi avrebbe provocato 35 vittime.
Se la Russia ha invitato la Turchia ad astenersi dall’uso di una forza militare ‘eccessiva’, gli Stati Uniti chiedono una de-esclation. Entrambi i Paesi, che controllano lo spazio aereo in questione, quasi sicuramente erano avvisati dell’imminente operazione. Mentre Alexander Lavrentyev, inviato speciale del presidente russo Vladimir Putin in Siria, aveva dichiarato che “la Russia ha fatto per mesi (…) tutto il possibile per impedire qualsiasi operazione di terra su larga scala”. All’attuale campagna di bombardamenti potrebbe aggiungersi anche un’operazione di terra, già paventata da Erdogan e non esclusa dagli iraniani, in questa inedita nuova alleanza.