di Alessandro De Pascale
Attorno alle 23 di ieri ora italiana, Recep Tayyip Erdogan (69 anni) è stato riconfermato presidente della Repubblica di Turchia dal Consiglio Elettorale Supremo (YSK), al termine di un ballottaggio che lo ha visto conquistare con la sua coalizione di destra il 52,16% dei voti. Unita nella National Alliance formata da sei partiti, l’opposizione eterogenea guidata da Kemal Kilicdaroglu (74 anni) non è ugualmente riuscita a interrompere il ventennio al potere dell’uomo forte di Ankara, fermandosi al 47,84% delle preferenze. Pur costringendo per la prima volta Erdogan al ballottaggio. “Continueremo la lotta” fino a quando in Turchia non ci sarà “una vera democrazia”, ha promesso ieri in conferenza stampa ammettendo la sconfitta il numero uno del Partito Popolare Repubblicano (CHP). Nemmeno stavolta, Kilicdaroglu è insomma riuscito a spuntarla. Anche perché, dopo vent’anni di sconfitte contro l’attuale presidente, non costituiva di certo un elemento di novità sul palcoscenico della politica turca. Con questo ennesimo mandato, Erdogan si appresta dal canto suo a raggiungere un quarto di secolo ininterrottamente alla guida del Paese. Che grazie ad una solida maggioranza in Parlamento conquistata due settimane fa al primo turno di queste elezioni, potrà ora continuare a governare per altri cinque anni.
“La nostra gente ci ha dato ancora fiducia, sarà il secolo della Turchia”, ha dichiarato Erdogan ieri sera festeggiando il risultato a bordo di un autobus. Una vittoria resa possibile, come avevano già previsto diversi analisti politici, dall’essere riuscito a mantenere la propria base elettorale, guadagnando anche i voti dell’esponente della destra nazionalista Sinan Ogan (55 anni), il quale con l’Alleanza Ancestrale Nazionalista (ATA) formata da tre formazioni politiche, al primo turno aveva ottenuto il 5,17% dei consensi, decidendo poi di appoggiare il presidente uscente al ballottaggio. Alla ricerca dei suoi voti, lo sfidante Kilicdaroglu nelle ultime due settimane aveva abbandonato i toni concilianti e distensivi tenuti fino ad allora, virando su una retorica nazionalista. Una scelta che non ha pagato, facendo perdere all’opposizione molti voti delle regioni a maggioranza curda, che lo avevano sostenuto al primo turno vista la presenza nelle liste dell’alleata Sinistra Verde (YSP) di esponenti politici di questa minoranza.
Le sfide che Erdogan si troverà davanti nei prossimi cinque anni di questo suo terzo mandato da quando nel 2018 ha trasformato la Turchia in una Repubblica presidenziale sono numerose. Dal difficile rapporto con l’Occidente (Ankara non ha ancora dato il via libera all’ingresso della Svezia nella Nato) alla precaria situazione economica. L’inflazione nel Paese è sopra il 43% (a fine 2022 aveva superato l’80%, toccando i livelli più alti di questi ultimi vent’anni), mentre nei giorni scorsi la lira turca ha registrato l’ennesimo record rispetto al valore del dollaro. Ad Erdogan toccherà inoltre l’onere di fornire risposte alle circa 14 milioni di persone (il 16% della popolazione), colpite il 6 febbraio scorso da due forti terremoti che hanno raso al suolo intere regioni nel sud-set del Paese, provocato danni per miliardi di euro. Nel 2024 sono infine in programma le elezioni amministrative, con le quali Erdogan mira a riconquistare anche Istanbul e Ankara, che il suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) aveva perso al voto di cinque anni fa.
Altro tema caldo, spinoso e di difficile soluzione, la questione dei rifugiati siriani approdati in Turchia in fuga dal conflitto civile scoppiato oltreconfine nel 2011. Secondo i datti ufficiali, pari a 3,7 milioni di persone sui 5,5 milioni di stranieri presenti nel Paese. In campagna elettorale Erdogan ha promesso che almeno un milione di loro torneranno “volontariamente” in patria. Ma per mantenere tale promessa, il presidente turco deve innanzitutto ricucire i rapporti con il suo omologo siriano Bashar al-Assad, interrotti oltre dieci anni fa. A tal proposito, difficile che Erdogan accetti di buon grado la precondizione posta per la prima volta esplicitamente da Damasco ad Ankara: il ritiro delle truppe turche che dal 2019 occupano il nord della Siria. Un’operazione militare di terra il cui obiettivo dichiarato è di mettere fine, nel Kurdistan siriano, al progetto di confederalismo democratico del Rojava.
Nella foto in copertina, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan © Kursat-Bayhan/Shutterstock.com