La pace possibile tra Addis e Asmara

Le speranze per l'avvio di un negoziato che metta fine alle controversie tra i due Paesi stanno diventando realtà. Purché, avverte Nino Sergi, il mondo faccia la sua parte. L'Italia per prima

Il primo ministro etiope, Abiy Ahmed, ha annunciato che Etiopia ed Eritrea riprenderanno le relazioni diplomatiche. Lo ha detto durante la conferenza stampa con il presidente eritreo, Isaias Afewerki, da cui è stato ricevuto ieri ad Asmara. Ha aggiunto che i due paesi si sono accordati per la ripresa del traffico aereo e navale, per la circolazione delle persone e per la riapertura delle rappresentanze diplomatiche. Infine i due paesi hanno concordato l’utilizzo dei porti eritrei da parte dell’Etiopia che non ha uno sbocco al mare. I due leader hanno trattato il tema di un negoziato di pace che ponga fine definitivamente alla guerra tra Etiopia ed Eritrea scoppiata nel 1998 e terminata con un armistizio concordato ad Algeri nel 2000. Abbiamo chiesto a Nino Sergi, profondo conoscitore della realtà dei due paesi, un commento sul futuro di questo cammino appena iniziato.

Nino Sergi*

Il 5 giugno scorso all’Asmara è giunto dal governo di Addis Abeba il segnale che potrebbe mettere presto fine al conflitto tra Etiopia e Eritrea: la decisione di applicare gli accordi di Algeri del 2000, con le relative disposizioni della Commissione indipendente creata per sciogliere il nodo della demarcazione della frontiera tra i due paesi. Un segnale atteso da ben 18 anni. Asmara ha infatti sempre sostenuto di essere pronta a riavviare il dialogo con Addis Abeba non appena questa avesse accettato il verdetto della Commissione Confini che obbligava l’Etiopia a restituire una parte di terra occupata militarmente in modo del tutto arbitrario, sorprendentemente rifiutato dal defunto premier etiopico Meles Zenawi dopo averlo accettato.

L’Eritrea ha immediatamente reagito decidendo di inviare in Etiopia una delegazione di alto livello a dimostrazione di essere pronta alla normalizzazione dei rapporti, legittimando al contempo il
nuovo primo ministro etiopico eletto il 2 aprile 2018, Abiy Ahmed, che aveva annunciato la decisione di attuare l’Accordo di Algeri senza alcuna condizione preliminare. Nello stesso discorso di insediamento davanti al parlamento etiopico, facendo riferimento all’Eritrea aveva commentato: “Per il bene comune dei nostri due paesi, non solo per il nostro beneficio, ma per quello delle due nazioni legate dal sangue, siamo pronti a risolvere le nostre differenze attraverso il dialogo e invitiamo il governo eritreo a mostrare gli stessi sentimenti”.

Non si conoscono ancora i dettagli dell’incontro bilaterale avvenuto ad Addis Abeba, dove la delegazione eritrea composta da Yemane Gebreab, consigliere presidenziale e capo degli affari politici del partito unico (PFDJ, Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia), Osman Saleh, ministro degli Esteri e Araya Desta, ambasciatore presso l’UA è giunta il 26 giugno accolta da gioiose manifestazioni popolari. In entrambi i paesi le reazioni sono state positive, a dimostrazione di quanto la guerra fratricida degli anni 1998 e 2000 con le decine di migliaia di morti e le ingenti distruzioni e il successivo permanente stato di belligeranza erano basati soprattutto su inimicizie politiche e personali dei leader e motivazioni di potere interne.

Domenica 8 luglio è il primo ministro Abiy Ahmed a volare all’Asmara dove ha incontrato all’aeroporto il presidente Isaias Afewerki. I leader di Etiopia ed Eritrea si sono così incontrati per la prima volta da quasi 20 anni. Uno storico incontro. Afwerki ha accolto con un abbraccio il nuovo premier dell’Etiopia. La folla ha ballato e cantato in onore dei due leader e lungo le strade della capitale sventolavano le bandiere dei due Paesi. Tutto fa quindi sperare che il processo di pace avviato dal premier riformista Abiy Ahmed e accolto da Afewerki trovi presto il suo compimento come i popoli dei due paesi auspicavano da tempo.

Il ventennale stato di guerra ha portato presto il presidente eritreo Isaias Afewerki al congelamento di quelle riforme e aperture democratiche per le quali la lotta di liberazione all’interno e il lavoro delle comunità esuli in Occidente avevano combattuto con tenacia e passione. La ‘difesa del paese’ è divenuta la giustificazione del sistema dittatoriale, della limitazione delle libertà, degli arresti e delle uccisioni. In una mia visita, pochi anni fa, forte è stata l’impressione di un paese con una politica interna rimasta ferma sul passato, sulla lotta di liberazione, da cui (cito parole di autorevoli leader) “è nata la nazione eritrea, con un’identità e un’unità nazionale forti, che superano le diverse identità etniche e religiose che possono mettere a rischio l’unità; una nazione forgiatasi nella lotta, nella sofferenza, nell’aver contato solo sulle proprie forze, con la determinazione e il coinvolgimento di tutta la popolazione, all’interno e nella diaspora”.

Un passato che, con i suoi martiri ricordati e onorati, è continuamente ripresentato sia per affermare l’unità nazionale, sia per trasmetterlo alle nuove generazioni con i suoi valori unificanti: “unità nazionale, riconciliazione nazionale, equità e giustizia sociale, diritti e pari opportunità per tutti, contare su sé stessi con una diffusa partecipazione costruita sulla fiducia tra governo e popolazione…”. Il futuro è stato visto quindi come continuazione dell’ “impegno per difendere la propria indipendenza, contro l’ingiustizia subita dall’Etiopia e dai suoi sostenitori, per arginare le ingerenze esterne, per rafforzare la fiducia tra governo e società e accrescere la partecipazione democratica attraverso il coinvolgimento delle organizzazioni dei lavoratori, donne, giovani, diaspora”. Parole che non hanno trovato attuazione perché partecipazione democratica e coinvolgimento sono stati intesi come sottomissione al partito unico e ai voleri del sistema dittatoriale. L’auspicio è che la pace con l’Etiopia possa ora portare grandi cambiamenti per la popolazione eritrea, le sue libertà, la sua emancipazione.

L’Etiopia, molto più grande territorialmente e più varia e complessa dal punto di vista sociale, etnico e religioso, dopo l’indipendenza dell’Eritrea si è ritrovata a fare i conti con le contraddizioni e le problematiche che avevano portato al crollo della dittatura del presidente Menghistu, con le fratture etniche e sociali che hanno sempre impedito all’Etiopia di emanciparsi e modernizzarsi. Le successive pseudo-democrazie di comodo, rappresentate da coalizioni di maggioranza su base etnica, hanno prodotto danni enormi.

Persecuzioni, soppressione delle sempre maggiori voci dissidenti, sottovalutazione del crescente movimento degli Oromo, disordini interni, fino alla dichiarazione dello stato di emergenza. Le troppe tensioni interne hanno convinto la coalizione governativa ad accettare prima le dimissioni del primo ministro Hailemariam Desalegne, succeduto a Meles Zenawi, e poi ad eleggere primo ministro Abiy Ahmed, appartenente al gruppo etnico Oromo ma con un forte senso dell’unità nazionale e l’intenzione di lottare contro corruzione e settarismi etnici.

C’è da sperare che l’Italia e il mondo prestino attenzione a questa straordinaria novità, sostenendola ed aiutando i due paesi nel cammino delle riforme. L’Italia in particolare, dati i legami storici che, nel bene e nel male, la connettono ai paesi del Corno d’Africa.

* Presidente emerito di INTERSOS, policy advisor di LINK 2007

Nell’immagine di copertina, un fotogramma tratto da un video di Al Jazeera durante l’arrivo ad Asmara di Abiy Ahmed. In alto a destra, Nuno Sergi

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