Arabia Saudita, Iran e Israele in cerca di meno nemici

Per Vittorio Maccarrone de Il Caffè Geopolitico gli accordi in Medio Oriente per la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Paesi stanno creando un “effetto domino”

di Alessandro De Pascale

Il 10 marzo, Iran e Arabia Saudita hanno raggiunto a Pechino un accordo per il ripristino delle relazioni diplomatiche interrotte nel 2016. Il 29 marzo, Ryad ha inoltre annunciato la propria adesione all’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (Sco), il forum di cooperazione euro-asiatico dominato da Russia e Cina in funzione anti-Usa. Il 15 settembre 2020, alla Casa Bianca, l’allora presidente statunitense Donald Trump aveva invece mediato la firma degli Accordi di Abramo. Israele avviava così relazioni diplomatiche con Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, primi Stati del Golfo ad unirsi ad Egitto (1979) e Giordania (1994) nell’avvio di rapporti con lo Stato ebraico. Ne abbiamo parlato con Vittorio Maccarrone, collaboratore di lungo corso de Il Caffé Geopolitico, associazione che dal 2009 analizza la geopolitica e le relazioni internazionali.

Come riassumerebbe la politica estera del giovane ereditario principe saudita?

L’Arabia saudita va verso la diversificazione dei propri alleati e ha sempre cercato di vedere le proprie relazioni, non solo regionali ma internazionali, in maniera tale da difendere i propri interessi, soprattutto securitari. Non si fida più degli Stati Uniti, anche se ospita soldati e basi Usa. Non nutre più fiducia nella sicurezza che Washington potrebbe garantirgli, ma continua a dialogare con l’Occidente. Nel 2019 l’Arabia Saudita ha subito un attacco alle sue infrastrutture petrolifere, più o meno diretto, proprio dall’Iran. Gli USA, allora guidati da Trump, inviarono più truppe a Ryad ma non colpirono direttamente Teheran per dissuaderla da altre azioni nei confronti nei confronti del Regno. Che era quello che cercava di ottenere l’Arabia Saudita dagli Stati Uniti. Da quel giorno il Regno sta cercando di avviare una distensione nei confronti dell’Iran.

Qual è l’obiettivo saudita di questo riavvicinamento all’Iran?

Arrivare a una distensione dei rapporti o quantomeno a un congelamento delle delle tensioni tra i due Paesi, così da mettere al sicuro le proprie esportazioni di petrolio. Che è bene ricordare sono la sua fonte vitale di guadagno. Su questo vale la pena ricordare che l’Arabia Saudita non ha partecipato alle sanzioni contro la Russia imposte dall’Occidente. Anzi, ha ad esempio aumentato le esportazioni di diesel verso Mosca. A questo si aggiunge la loro preoccupazione per il possibile sviluppo del programma nucleare iraniano. In poche parole, con questo avvicinamento, l’Arabia Saudita sta cercando di avere un nemico in meno in Medio Oriente. È questo il solco nel quale il Regno saudita si sta muovendo a livello regionale.

A suo parere quali saranno gli effetti di questo accordo?

È un avvicinamento tattico, non strategico, che ha però creato immediatamente un effetto domino nel Golfo. Nel breve e nel medio periodo può creare i presupposti per una calma relativa in Medio Oriente. Ma nel lungo periodo una stabilizzazione totale sarà molto difficile. Tra Iran e Arabia Saudita c’è sempre stata una rivalità per arrivare a un’egemonia in Medio Oriente che ha creato una destabilizzazione in tutta l’area. Guardiamo alla Siria, allo Yemen, agli attacchi alle infrastrutture energetiche non solo saudite ma anche emiratine. L’Iran sostiene in Siria il regime di Bashar al-Assad. In Yemen gli Houti, pur non essendo una loro diretta emanazione avendo una certa autonomia, sono collegati all’Iran. Per la prima volta dal 2016, Teheran ha nominato il 5 aprile un proprio ambasciatore negli Emirati Arabi Uniti, cosa che era già stata fatta anche nel Kuwait. Negli ambienti regionali del Medio Oriente, alcune fonti diplomatiche, quindi nulla di ufficiale, parlano anche di cosa può succedere con con la Giordania o l’Egitto. Al-Sisi, ricordiamolo, è un alleato dell’Arabia Saudita. Non è da sottovalutare nemmeno il riavvicinamento tra l’Iran e il Bahrein e anche con l’Oman sembrano esserci i presupposti.

Invece qual è l’attuale politica estera iraniana?

L’Iran si percepisce impero e ha una narrazione, anche in larga parte condivisa anche dalla popolazione, di influenza a livello regionale. A differenza dell’Arabia Saudita, l’Iran ha però smesso di dialogare con l’Occidente. In realtà è stato costretto a rompere i rapporti. Perché gli Stati Uniti prima decidono di dialogare con l’Iran attraverso l’accordo sul programma nucleare iraniano, poi durante la presidenza Trump lo stracciano. Alla politica di massima pressione USA nei confronti dell’Iran, non avendo più la strada negoziale (quindi diplomatica), Teheran risponde in due modi: da un lato procede all’arricchimento dell’uranio, dall’altro innalza la tensione compiendo azioni militari in tutto il Golfo e attaccando le infrastrutture saudite ed emiratine. L’Iran ha inoltre aumentato il supporto agli Houti nella guerra in Yemen contro tutta la coalizione a guida saudita che sostiene il governo Hadi. Ora si è però reso conto di avere troppi nemici, di essere totalmente accerchiato e guarda altrove.

Questo accordo potrà influire sulla guerra in Yemen, in corso dal 2015, che vede Arabia Saudita e Iran su fronti contrapposti?

Secondo alcune voci l’Iran avrebbe detto all’Arabia Saudita: Cerchiamo di risolverla in modo diplomatico, non sosterremo più gli Houti”. In cambio tu mi fai uscire dall’isolamento”. Mi aiuti, non dico ad avere degli amici in Medio Oriente, perché la lotta per l’egemonia tra le due nazioni nei prossimi anni ritornerà, ma intanto dialoghiamo per cercare di risolverla in maniera diplomatica. Non c’è nulla di sicuro, anche se si potrà arrivare a una trattativa.

Qual è stato il ruolo della Cina nel raggiungimento di questo accordo?

Di facilitatore. La Cina è stata brava a inserirsi nel momento in cui c’era già una ricerca di dialogo. Ci sono due ambiti. Il primo è un ruolo simbolico, molto scenografico, da parte della Cina. La narrazione di proporsi come una potenza mondiale che cerca la stabilità, la pace e il dialogo. C’è poi il ruolo geopolitico. La Cina crede nel declino statunitense a livello egemonico e quindi anche in una transizione multipolare delle relazioni internazionali, di cui parla apertamente. Si è accorta che gli Stati Uniti si stanno ritirando del Medio Oriente a favore del teatro dell’Indo-Pacifico. Cui si aggiunge, dopo l’invasione dell’Ucraina, il contenimento della Russia in Europa orientale. Ecco perché la Cina ha deciso di dare agli attori nel Golfo un proprio segnale di presenza. Infine c’è l’aspetto economico: Pechino ha strettissimi legami con l’Iran e l’Arabia Saudita, che nel corso degli anni si sono intensificati. Entrambi sono del resto fornitori di petrolio anche alla Cina, che è la seconda più grande economia del mondo.

Nel 2020 era stata la volta di Israele, nel cercare di avere meno nemici nell’area?

Sì, con gli accordi di Abramo, che ovviamente escludono l’Iran. I Paesi del Golfo stanno cercando di avviare una fase volta più al pragmatismo, piuttosto che a un’ideologia che vede in Israele il male assoluto. L’Iran ha deciso di rimanere su quella posizione, a differenza di Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, che sono stati spinti in questa direzione dall’America e in questo caso da Trump, il quale ha cercato a modo suo di pacificare la regione. L’Arabia Saudita e Israele in realtà già parlavano, ad esempio in merito al programma nucleare iraniano. C’erano dei contatti, in maniera indiretta.

Foto in copertina © May Chanikran/Shutterstock.com

 

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