di Adalberto Belfiore
Turbe di fanatici pro governo hanno fatto irruzione martedì scorso nella Cattedrale di Managua, dove alcune madri di prigionieri politici avevano iniziato uno sciopero della fame, hanno pestato un prete e una monaca, don Rodolfo Lopez e la suora Arelyz Guzman, inalberando cartelli contro la chiesa Cattolica definita ancora una volta “golpista”: un atto che l’Arcivescovo di Managua Leopoldo Brenes ha definito “una profanazione”.
La cattedrale, dopo lunghe trattative, è stata restituita ma chi protestava ha dovuto andare a casa e lo stesso il nunzio apostolico Stanislaw Sommertag per entrare nella chiesa aveva dovuto chiedere il permesso alla polizia e ai paramilitari da essa controllati. Analogo fatto e forse ancora più inquietante si è poi registrato anche nella vicina Masaya, città storica della rivoluzione sandinista degli anni 70/80 e l’anno scorso epicentro di proteste antigovernative represse nel sangue, dove da sei giorni la polizia circonda la chiesa parrocchiale di San Miguel tenendo di fatto sequestrato un altro gruppo di madri di prigionieri politici, anch’esse in sciopero della fame, e lo stesso parroco Edwin Román, coraggioso critico del regime. Il religioso soffre di diabete ma la polizia non permette che possa ricevere l’insulina di cui ha bisogno.
“Morirete tutti qui dentro” è stato sentito gridare un ufficiale di polizia. Addirittura le autorità hanno staccato la luce alla chiesa, intercettato e distrutto i tubi dell’acqua potabile e arrestato un gruppo di notissimi attivisti dell’opposizione per il solo fatto di cercare di portare acqua, medicine e alimenti all’interno della chiesa.
Nessuna tolleranza
Alcuni, come la ventiquattrenne Amaya Coppens, erano già stati incarcerati nel carcere de “El Chipote” e liberati in seguito a pressioni delle organizzazioni internazionali pro diritti umani. Con fulminea rapidità la polizia ha comunicato di aver “catturato sedici delinquenti terroristi” affermando che nell’operazione sono stati sequestrati agli arrestati dodici artefatti incendiari “conosciuti come bombe molotov”, un fucile con sedici cartucce, tre revolver con munizioni, un’arma artigianale “atta a far fuoco“ e i quattro veicoli con cui si muovevano. Malgrado tutti abbiano visto, e documentato con decine di video di cellulari diffusi sul web, che gli attivisti portavano bottigliette d’acqua, ghiaccio per l’insulina e qualche alimento.
Questa è la realtà del Nicaragua di oggi, dove il presidente Ortega, al potere da 14 anni dopo aver manipolato leggi e Costituzione per garantirsi la rielezione, e sua moglie Rosario Murillo, vera anima nera del regime (a cui la voce popolare attribuisce l’iniziativa di aggredire gli oppositori fin dentro le chiese) erano riusciti a ridurre quasi al silenzio l’opposizione con una repressione spietata costata dal 18 aprile dello scorso anno 358 morti accertati, centinaia di prigionieri politici, migliaia di feriti, un numero imprecisato di desaparecidos e più di 70.000 profughi all’estero, in maggioranza nella vicina Costa Rica.
Tutti gli osservatori attribuiscono questa recrudescenza repressiva al nervosismo (alcuni dicono: al terrore) che si è impadronito della coppia presidenziale nicaraguense, del suo entourage e dei loro sostenitori, dopo la fuga di Evo Morales dalla Bolivia. Ortega però, al di là di ogni giudizio di merito, si è dimostrato molto più abile del suo collega boliviano. Morales è stato costretto a dimettersi per l’ammutinamento della polizia e per un “pronunciamiento” militare, mentre Ortega, forte dell’esperienza della guerriglia, negli anni ha raggiunto un controllo ferreo sia della polizia sia dell’esercito: a capo della polizia ha messo suo suocero Francisco Díaz, provvedendo a epurare tutti coloro – ex guerriglieri non allineati o non corrompibili, ufficiali alti e intermedi – che potessero ostacolare i suoi piani. E proprio in questi giorni ha confermato per altri cinque anni come comandante supremo, violando la legge militare, il corrotto generale Julio César Avilés, uno dei suoi fedelissimi. Il quale, nel discorso per l’anniversario della fondazione dell’Esercito, riferendosi alle proteste iniziate nell’aprile del 2018 a seguito del taglio delle pensioni, ha ammonito “coloro che stanno dietro questa brutale campagna di attacchi e provocazioni” che non saranno tollerati il terrorismo e i tentativi di colpo di stato. Così il governo sempre definisce qualunque tipo di protesta.
Effetto Morales
C’è chi sostiene che nessuno dei presidenti dei residui principali Paesi dell’ALBA (la Alternativa Bolivariana per le Americhe) – idea del presidente venezuelano Hugo Chavez che tante aspettative aveva creato nelle sinistre radicali del Continente, ossia Cuba, Nicaragua e Venezuela – abbia voluto dare asilo a Morales per la riprovazione verso la sua rinuncia (e soprattutto per il timore che l’esempio della Bolivia possa indurre i propri Paesi a seguirne la strada). Ma Ortega, che l’informazione internazionale ignora quasi completamente pur essendo forse il principale ispiratore dello stravolgimento dei meccanismi democratici e della deriva repressiva nei Paesi dell’ALBA, deve aver visto la mossa di Morales come il fumo negli occhi.
Il Nicaragua è ormai una dittatura quasi perfetta, con il presidente che controlla tutto: oltre alle forze armate anche parlamento, magistratura, potere elettorale, sindacati, media (le principali radio e tv sono state comprate con i petrodollari di Chavez e affidate ai figli, ai maggiori quotidiani di opposizione viene bloccata la carta in dogana e le redazioni vengono assaltate e derubate da polizia e paramilitari). E perfino la Croce Rossa che, per inciso, si è rifiutata di assistere le persone in sciopero della fame. Nessuno stupore dunque che alle vittime della repressioni non resti altro che rifugiarsi nelle chiese (neppure la dittatura sanguinosa dei Somoza aveva osato profanarle).
In più, l’uso orwelliano della retorica rivoluzionaria da parte del settantaduenne presidente – c’è chi dice gravemente ammalato – e della terminologia pseudo religiosa della Murillo, condita con inviti all’amore e alla pace quanto più si intensificano minacce di morte agli oppositori ed episodi di efferata repressione con l’uso arbitrario della polizia e di squadracce paramilitari, configurano il regime nicaraguense come una delle più inquietanti incarnazioni dei timori di Orwell. Un esempio, illuminante, fra tutti: le bande come quella che è entrata nella Cattedrale si autodefiniscono “Gruppi cattolici rivoluzionari” e predicano pace e riconciliazione. Tuttavia un attacco così frontale e violento alla chiesa cattolica non è un segno di forza e rischia di avere conseguenze pesanti per il regime.
Condanna unanime
Molti paesi, in Europa primo fra tutti la Spagna, l’Unione Europea con una dichiarazione del capo della sua diplomazia Federica Mogherini, le principali organizzazioni internazionali per i diritti umani, comprese quelle del sistema delle Nazioni Unite, hanno stigmatizzato l’assedio alle chiese e gli arresti arbitrari di oppositori. L’Organizzazione degli Stati Americani ha condannato in un comunicato emesso martedì “la violazione dei diritti più elementari e l’alterazione del quadro costituzionale in Nicaragua”. Anche se, dato il peso del petrolio venezuelano sul voto di alcuni piccoli stati dei Caraibi, ancora non sembrano esserci i 24 voti necessari per applicare al Paese di Ortega/Murillo la clausola democratica che ne determinerebbe l’espulsione. Ma l’emozione che l’irruzione nelle chiese e il pestaggio di religiosi ha sollevato in tutto il piccolo Paese centroamericano, in grande maggioranza cattolico, ha dato nuovo impulso all’opposizione interna, in particolare alla Alianza Nazional Azúl y Blanco (azzurro e bianco, dai colori della bandiera) che ha annunciato un articolato programma di lotte civiche e non violente con l’obbiettivo di “un Natale senza prigionieri politici” e rilanciato l’idea di uno sciopero generale nazionale indefinito per ottenere l’auspicabile caduta di Ortega.
Finora l’opposizione, dopo i blocchi stradali del maggio 2018, ha dimostrato visione e fermezza nel non cadere nella trappola della violenza in cui la vorrebbe trascinare Ortega, che in un discorso appena dopo le dimissioni di Morales, come è noto accusato di smaccati brogli elettorali, ha detto letteralmente: “abbiamo puntato alla via elettorale, ma credo che la Bolivia sia una prova del fuoco perché si possa avere una minima fiducia nella via elettorale. Altrimenti i popoli si sentiranno con tutto il diritto e l’obbligo di usare le armi per prendere il potere per la via rivoluzionaria”. Il tempo sembra essersi fermato nella mente di Ortega, ma chi conosce il Paese sa che non si tratta solo di minacciose farneticazioni di un potere illegittimo, corrotto e criminale. E ha piuttosto la sensazione che per ottenere la caduta di questo regime, un residuato dei mostri più bui dello stalinismo o forse più correttamente un bell’esempio di fascismo tropicale, dovrà scorrere ancora un fiume di dolore e di sangue.
In copertina, una foto diffusa dalla Sir durante il “sequestro” della cattedrale. All’interno, immagine diffuse dai social. Quella di Amaya Coppens viene dal sito delle Scuole del mondo unito (Uwc)