Cile: la forza (e la poesia) della ragione

L'analisi di Silvia Carradori, attivista femminista, sulla rivolta cilena

Riceviamo e pubblichiamo la testimonianza di Silvia Carradori, attivista femminista che per anni ha lavorato e vissuto a Santiago del Cile, su quanto sta avvenendo nel Paese.

Lunedì sera, Santiago del Cile. La strada davanti al Teatro Municipal è vuota, la luce a metà fra il giorno e la notte. Per ore si è chiesto ai manifestanti di far risuonare una canzone all’inizio del coprifuoco. E così accade. Alle 20.00 in punto, ora locale, l’aria si riempie con la musica e le parole di El derecho de vivir en paz. Il diritto di vivere in pace, una richiesta, un’esigenza, una speranza per la quale il popolo cileno, come molti altri, scende periodicamente in piazza. Il cantautore è quel Victor Jara brutalmente torturato e ucciso nel 1973 e diventato, a buona ragione, uno dei simboli più forti della lotta contro la dittatura di Pinochet.

Due cose mi vengono in mente: da una parte, la bellezza della protesta, quando usa quanto di più umano ci sia (la creatività e l’emozione unite nell’arte) per portare avanti le proprie battaglie. Dall’altra l’eterno ritorno di misure restrittive dittatoriali ufficialmente sospese, ma ancora attive non solo durante le manifestazioni di cui siamo testimoni in questi giorni, ma anche nelle proteste che dal 2006 in poi hanno riempito le strade di Santiago e delle più importanti città del paese. Una riflessione a parte merita il caso del popolo mapuche, vittima di un continuo assalto da parte dello stato e delle Forze Armate: la comunità indigena è ben abituata ad affrontare perquisizioni, assalti con pistole e lacrimogeni, arresti sommari, morti e desaparecidos. Osservare, dunque, la storia del Cile degli ultimi decenni significa capire che il referendum del 1988 ha portato una democrazia sulla carta, ma non nella strada, né tantomeno nella quotidianità e sui corpi della maggioranza della popolazione cilena. E significa anche comprendere che le proteste di questo ottobre sono solo le ultime di una lunga lista: la rabbia non è esplosa all’improvviso ed è stata alimentata anche dall’immediata repressione violenta messa in atto dalle Forze Armate.

Come conseguenza e reazione a questa militarizzazione del territorio, le più importanti associazioni di tutela dei diritti umani stanno monitorando la situazione, aggiornando la lista di persone arrestate (ad oggi più di 1300), torturate, ferite con armi da fuoco (più di 80) morte (tra 11 e 15), scomparse. Anche il movimento femminista si è unito a questa opera di raccolta dati, concentrandosi soprattutto sulle testimonianze di donne che hanno subito abusi e violenze sessuali durante la detenzione: ABOFEM, l’Associazione di Avvocate Femministe del Cile, ha ricevuto almeno 10 denunce e, insieme ad altre organizzazioni, ha diffuso una guida sui diritti del detenuto e della detenuta in situazioni straordinarie. In parallelo, le principali associazioni femministe, lavorano unite nella Cumbre de los Pueblos, riunione nata come spazio di riflessione alternativa durante la APEC e la COP25 (previste rispettivamente a novembre e dicembre di quest’anno a Santiago), ma impegnata anche nel sostegno alle proteste degli ultimi giorni e alla diffusione di documenti dove si riassumono le richieste del popolo cileno.

Credo che la Cumbre sia un po’ uno specchio delle manifestazioni in corso: a questa, infatti, partecipano una parte del movimento femminista, organizzazioni politiche, sociali, ambientaliste. E le richieste dei manifestanti che riempiono le strade di musica e cacerolazos rappresentano esattamente questa intersezionalità: non si chiedono misure minime, ma un cambiamento radicale del sistema economico, politico e culturale. Si chiede di poter ‘vivere in pace’, di poter condurre un’esistenza degna senza doversi indebitare per far studiare un figlio o per curarsi, senza arrivare alla terza e quarta età con pensioni inferiori al salario minimo cileno (circa 370 euro). Si chiede di rinunciare alla privatizzazione di rame, litio, acqua, e di smettere di svendere interi territori alle multinazionali, che possono devastarli attraverso l’estrattivismo e la deforestazione. Si chiede che i grandi evasori fiscali, come le aziende private, le stesse Forze Armate e i politici, paghino per i crimini commessi attraverso leggi che mettano fine all’impunità. Leggi che, inoltre, tutelino quei settori della popolazione, come il popolo mapuche, le donne e la comunità LGBTQ+, costantemente lasciati al margine della società di diritto.

Per tutte queste ragioni un’intera nazione si è ribellata. L’aumento del costo dei mezzi pubblici è solo l’ennesimo provvedimento di un governo che negli anni, e nel susseguirsi di partiti e politici, ha saputo rispondere solo con frasi offensive ed atti violenti e che ora rivela tutta la sua incompetenza. Mentre il racconto ufficiale non fa distinzione tra manifestanti e vandali e mostra solo le immagini di edifici bruciati e barricate, per strada i militari sparano a bruciapelo, si infiltrano nelle manifestazioni, di notte prendono persone per la strada e le portano via con auto civili, oppure ne scaricano altre dai camion in corsa, di altre ancora non si sa che fine abbiano fatto. Da una parte, il presente che si fa passato. Dall’altra, la forza delle ragioni di una protesta che non può diventare dialogo se le strade continuano ad essere militarizzate.

Sempre lunedì sera, al crepuscolo, risuona la canzone di Victor Jara. In una strada deserta del centro una coppia balla sui resti della battaglia diurna. Quando il sole alla fine se ne va, nel buio si continua a sentire la musica del cantautore cileno. Questa volta è una donna, che, affacciata dal balcone della sua casa, canta parole di pace e libertà. Il rumore del cacerolazo si ferma per far spazio alla sua voce. Il popolo è ancora vivo. La lotta continua.

Di seguito la traduzione in spagnolo:

Chile: la fuerza (y la poesía) de la razón.

El análisis de Silvia Carradori, activista feminista, a propósito de la protesta chilena.

Recibimos y publicamos el testimonio de Silvia Carradori, activista feminista que trabajó y vivió en Chile, sobre lo que está pasando en el país.

 Lunes en la tarde, Santiago de Chile. La calle en frente del Teatro Municipal está vacía, la luz entre el día y la noche. Durante unas horas se pidió a los manifestantes que, al inicio del toque de queda, pusieran en sus parlantes a todo volumen una canción. Y así fue. A las 20 en punto, hora local, el aire se llena de la música y las palabras de El derecho de vivir en paz: una petición, una exigencia, una esperanza que lleva el pueblo chileno (como muchos más) a bajar a las calles periódicamente. El cantautor es aquel Víctor Jara, brutalmente torturado y matado en 1973, y que llegó a ser, por derecho, uno de los símbolos más fuertes de la lucha contra la dictadura de Pinochet.

Se me ocurren dos cosas: por un lado, la belleza de la protesta, cuando esta usa lo que más representa a la humanidad (la creatividad y la emoción unidas en el arte) para llevar adelante las luchas. Por el otro, el eterno regreso a las medidas restrictivas dictatoriales, oficialmente suspendidas y, sin embargo, todavía vigentes no solo en las marchas de estos días, sino también durante las manifestaciones que desde 2006 han llenado las calles de Santiago y de las demás ciudades del país. El caso del pueblo mapuche, tal vez, amerita una reflexión aparte, víctima de un continuo ataque por parte del estado y de las FFAA: la comunidad indígena está acostumbrada a enfrentar allanamientos, asaltes con pistolas y lacrimógenas, detenciones sumarias, muertes y desapariciones. Observar, entonces, la historia de Chile de las últimas décadas significa entender que el referéndum de 1988 trajo una democracia sobre el papel, pero no en la calle, ni menos en la cotidianeidad y en los cuerpos de la mayoría de la población chilena. Y, además, significa comprender que las protestas de este octubre solo son las últimas de una larga lista: la rabia no explotó de repente y fue alimentada también por la inmediata represión violenta llevada a cabo por las FFAA.

Como consecuencia y reacción a esta militarización del territorio, las asociaciones de tutela de los derechos humanos están monitoreando la situación, actualizando la lista de personas detenidas (hasta ahora más de 1300), torturadas, heridas con armas de fuego (más de 80), muertas (entre 11 y 15), desaparecidas. También el movimiento feminista se unió a esta recopilación de informaciones, enfocándose sobre todo en los testimonios de las mujeres que sufrieron acoso sexual y violaciones durante la detención: ABOFEM, la Asociación de Abogadas Feministas de Chile, hasta ahora ha recibido por lo menos 10 denuncias y, junto con otras organizaciones, empezó la difusión de una guía sobre los derechos de los detenidos y las detenidas en situaciones extraordinarias. En paralelo, las principales asociaciones feministas trabajan unidas bajo la Cumbre de los Pueblos, reunión creada como espacio alternativo de reflexión durante la APEC y la COP25 (a realizarse respectivamente en noviembre y diciembre de este año en Santiago), y que, además, se ha comprometido con el apoyo a las protestas de estos últimos días y con la difusión de documentos donde se resumen las peticiones del pueblo chileno.

Creo que la Cumbre se puede considerar un espejo de lo que está ocurriendo: son parte de esta el movimiento feminista, organizaciones políticas, sociales, medioambientales. Y las peticiones de los manifestantes que llenan las calles de música y cacerolazos representan justamente esta interseccionalidad: no se piden medidas mínimas, sino un cambio radical del sistema económico, político y cultural. Se pide la posibilidad de ‘vivir en paz’, llevar una existencia digna, sin tener que endeudarse para estudiar o para curarse, sin llegar a la tercera o cuarta edad con jubilaciones inferiores al sueldo mínimo (alrededor de 370 euros). Se pide que el estado renuncie a la privatización de cobre, litio, agua, y a la venta de territorios a las multinacionales, que los destruyen a través del extractivismo y la deforestación. Se pide que los grandes evasores fiscales, como las empresas privadas, las mismas FFAA y los políticos, paguen por sus crímenes mediante leyes que acaben con la impunidad. Esas leyes, además, deberían tutelar a esa parte de la ciudadanía, como el pueblo mapuche, las mujeres y la comunidad LGBTQ+, dejada al margen de la sociedad de derecho.

Por todas estas razones una nación entera se levantó. El alza del precio del metro es una medida más tomada por un gobierno que en los años, y en la sucesión de partidos y políticos, solo pudo responder con frases ofensivas y actos violentos, y ahora revela su absoluta incompetencia. Mientras el relato oficial no diferencia a manifestantes y vándalos, y solo muestra imágenes de edificios quemados y barricadas, en la calle los militares disparan a quemarropa, se infiltran en las marchas, de noche se llevan a personas en la calle con vehículos civiles o echan a otras de camionetas en movimiento, de otras más se desconoce su paradero. Por un lado, el presente que se vuelve pasado. Por el otro, la fuerza de las razones de una protesta que no puede convertirse en diálogo, si las calles siguen militarizadas.

Es lunes, al atardecer, resuena la canción de Víctor Jara. En una calle desierta del centro una pareja baila sobre los restos de las marchas. Cuando el sol finalmente se va, en la oscuridad todavía se escucha la música del cantautor chileno. Esta vez es una mujer, que, asomada al balcón de su casa, canta palabras de paz y libertad. El ruido del cacerolazo para y da paso a su voz. El pueblo aún está vivo. La lucha continúa.

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