di Maurizio Sacchi
Lo scioglimento dei ghiacciai delle Ande, che porta prima alluvioni, spesso accompagnate nell’immediato da frane e smottamenti, morte e devastazione, e poi siccità e scarsità d’acqua, mostra in modo evidente il danno immediatamente percepibile dell’innalzamento delle temperature. E il conflitto ambientale, sociale e politico sul destino del più grande polmone verde del pianeta – non solo la foresta delle Amazzoni, ma anche il bacino dell’Orinoco, e tutti i fiumi che tengono in vita le immense selve e e praterie sudamericane – dà un’immagine chiara degli interessi in gioco, e di come vengano prese le decisioni che possono arrestare -o accelerare, come purtroppo sembra ora – questa catastrofica corsa verso l’autodistruzione.
Cercando di prevedere, se non gli sviluppi futuri, almeno le tendenze della gestione delle risorse maturali in America latina, la grande varietà di ambienti e di zone climatiche, e governi di orientamenti totalmente opposti sulle politiche ambientali non consente generalizzazioni. Ogni Paese fa storia a sé.
In Bolivia, ad esempio, la contrazione dei ghiacciai minaccia l’approvvigionamento idrico da più di vent’anni. Già nel 1999, una serie di proteste, che divennero note come la “guerra dell’acqua di Cochabamba”, portò il governo, durante la disastrosa presidenza dell’ex dittatore Hugo Banzer, a revocare la progettata privatizzazione delle acque della città. Quasi 20 anni dopo, la Bolivia continua ad affrontare problemi di approvvigionamento idrico. Nel 2016, il paese ha sofferto la sua peggiore siccità in 25 anni. Le carenze idriche hanno interessato 125mila famiglie e 283mila ettari di agricoltura e hanno portato alla dichiarazione di uno stato di emergenza. E l’anno dopo, la capitale, La Paz, ha subito un’ulteriore siccità storica.
Sotto la presidenza di Evo Morales, di spiccata ispirazione socialista, il processo di privatizzazione e lo sfruttamento selvaggio dell’ambiente hanno visto un inversione di 180 gradi: la nazionalizzazione, nel 2006, delle risorse petrolifere e minerarie, i cui proventi vanno ora all’80 per cento allo Stato boliviano, ha finanziato anche la riforma agraria, lanciata immediatamente dopo, con l’obiettivo ufficiale di redistribuire la terra ai contadini. Ma le terre da distribuirsi sono ubicate nelle terre tropicali amazzoniche e del Chaco, da sempre abitate da oltre 30 gruppi indigeni diversi, mentre i concessionari delle terre sono principalmente di origine altipianica, quechua e aymara (come Morales). Anche questa riforma, pur nata con le migliori intenzioni, potrebbe aggravare ulteriormente la distruzione di ecosistemi forestali e praterie, e porre in pericolo aree protette e parchi nazionali. L’esigenza di sollevare dalla miseria e dare una prospettiva a decine di migliaia di famiglie fa pensare alle risorse naturali, come la terra, come a un bene da sfruttare, più che a un patrimonio da conservare.
Un altro problema è dato dalla profonda differenza, non solo etnica o culturale, ma di concezione della natura che è insita nell’agricoltore, come i Quechua e gli Aymara, e gli abitanti delle foreste, che vivono principalmente di caccia e di raccolta. La strenua difesa del loro ambiente che stanno tentando i primi abitanti di queste immense distese di verde non ha nulla di ideologico. L’impatto dei cacciatori-raccoglitori sull’ecosistema, di cui si può ben dire che siano una delle componenti, è quasi nullo. Per poter sopravvivere, essi hanno bisogno che la selva rimanga com’è.
Mentre, per necessità e cultura, il contadino disbosca, apre campi e strade, fonda villaggi e città stabili, sostituisce specie vegetali e animali originali con altre di allevamento. Non è un caso isolato. Le popolazioni originarie sono state in prima linea nella lotta per la difesa dell’ambiente, anche prima che questa entrasse nei programmi dei movimenti politici e nella coscienza collettiva. In Colombia, ad esempio, nello straordinario scenario della Sierra Nevada di Santa Marta, uno spettacolare e unico sistema montuoso, che affonda i piedi nel Mar dei Caraibi, e svetta fino ai 5.700 metri incappucciati di neve del Pico Bolivar, le popolazioni dei Kogis, Aruhacos, Wiwas e Kankuamos che vi abitano, sono riuscite a difendere in buona parte, questo angolo di pianeta così speciale e unico, dopo anni di resistenza pacifica – una rara evenienza in questo contesto.
Un luogo che considerano sacro, il punto dove si incontrano terra e cielo, e del quale si considerano non proprietari, ma custodi. Forse grazie alla sua eccezionalità, e alla bellezza mozzafiato dei luoghi, la Sierra ha attirato non solo gli appetiti di abusivi e narcotrafficanti, ma anche l’attenzione di antropologi e biologi, ed è diventato, per la maggioranza dei colombiani, un patrimonio da conservare. La Sierra Nevada de Santa Marta è stata dichiarata Parco Nazionale Naturale della Colombia nel 1964 e Riserva della Biosfera dall’Unesco nel 1979. Il “Parco Nazionale di Tayrona e Sierra Nevada de Santa Marta e i suoi siti archeologici” è stato inserito nella lista provvisoria delle proprietà Patrimonio dell’Umanità della Colombia nel 2012. Ma è una conquista fragile, e da difendere ogni giorno. Gruppi di contadini che fuggono dalla violenza nelle campagne, o dalla miseria e dal degrado delle periferie urbane continuano ad affluire alla spicciolata per insediarsi illegalmente sulle pendici del grande sistema montuoso. Ed è difficile far accettare a queste famiglie in stato di necessità l’idea che queste terre vadano lasciate intatte. Nel resto della Colombia, anche comunità assai distanti si sono coordinate da tempo per difendere, oltre alle proprie lingue e culture, anche la terra che le alimenta.
Su queste contrapposte esigenze ha giocato anche Bolsonaro, il neo eletto presidente di ultradestra del Brasile. Attaccando quella che considera una retorica elitista, e facendo appello allo stato di necessità causato dalla crisi economica, ha chiaramente definito l’Amazzonia una risorsa; e , nell’annunciare una serie di misure che tolgano di mezzo ogni ostacolo al suo sfruttamento, ha anche dichiarato cosa voglia fare di chi vi abita da sempre: “integrarli” alla società; ovvero espellerli dal loro habitat naturale, e deportarli. Legalizzando e sistematizzando quelle attività -disboscamento, estrazione dell’oro dai fiumi con mezzi chimici inquinanti – che fino ad ora avvenivano, ma in modo illegale, spesso denunciate dai leader indigeni.
Come Atlante delle guerre abbiamo già riferito in occasione del conflitto che coinvolge l’impero Benetton anche in Cile e in Argentina che le comunità native Mapuche sono in prima linea in questo scontro. La contrapposizione fra agricoltori poveri e nativi è dunque da collegarsi, in questa fase, anche al montante populismo. Che sfrutta la disperazione e lo stato di necessità, promettendo benessere in cambio dell’abbandono di ogni senso di solidarietà e di ogni senso di lungimiranza.