Gli occhi del muratore di Aleppo

di Ilario Pedrini

Nella Aleppo sommersa dalle macerie si levano le voci degli ultimi. Sono loro a raccontare, senza i filtri di un inellettualismo che spesso non porta da nessuna parte, senza il filtro degli interessi politici ed economici, cosa succcede e cosa si vede. Quando parlano gli ultimi, quando agli ultimi viene data la possibilità di parlare, ci sono buone possibilità di capire come stanno veramente le cose. Se non la verità, si può avere l’esatta percezione delle cose. Mahmud Fahrad (il nome è di fantasia) fa il muratore. In una città dove le case vengono abbatute dalle bombe, a parlare uno che di mestire le case le costruisce. La sua testimonianza è stata raccolta da Gli occhi della Guerra. Dice che l’incubo è iniziato nel 2012. Senza lavoro, sposato, padre di quattro figli, parla di Aleppo est, di come si viveva, anzi sopravviveva, «quando c’era la repubblica dei ribelli e dei jihadisti». «Ci facevano fare la fame. In questi anni non ho mai mangiato carne né frutta, quasi solo lenticchie e burghul (grano spezzato). Anche il pane scarseggiava. E intanto loro godevano di ogni ben di Dio e mangiavano tutto ciò che volevano. Avevano depositi pieni e si facevano beffe di noi: quando c’era qualche festività, macellavano pecore e vacche e poi rivendevano i pezzi di scarto, come gli stinchi o le interiora, a 10 mila lire siriane al chilo, il prezzo della carne migliore. I pezzi buoni, invece, costavano 30 mila lire, cioè dieci volte il prezzo normale. Una volta c’è stata una specie di manifestazione per protestare contro questi prezzi: hanno sparato sulla gente e ucciso quattro persone». Racconta della presenza di molti stranieri: «Girando per strada o nei mercati, avevano bisogno di qualcuno che li aiutasse con la lingua. E così sentivamo dire questo è francese, questo è americano, questo è turco… C’erano anche tanti sauditi, egiziani, dei giapponesi. Ma alla fin fine si somigliavano tutti» E ancora: «Questi non pregano Allah. Pregano il dio dollaro. I diversi gruppi si erano spartiti quella parte di città e per prima cosa cercavano di cavarne la maggior quantità di denaro possibile, sulla pelle della gente indifesa. Ogni tanto si ammazzavano tra loro per questioni di denaro. Un capo si allargava troppo, usciva dalla sua zona? Una bomba sotto la macchina e via. La politica… Forse. Ma questi avevano soprattutto tre passioni». La prima, manco a dirlo, sono i soldi. La seconda: il sesso. «Uno qualunque di questi barbuti poteva farti fuori impunemente, nessuno gli avrebbe detto una parola. Cercavano di procurarsi donne in due modi. Cercavano di comprarle, sfruttando la miseria della gente. Ci sono famiglie che hanno dato via una figlia per cento dollari o addirittura per qualche sacco di riso e di lenticchie. Oppure le portavano via con le minacce, con la violenza». La terza passione? «Sparare, ammazzare. Prima di partire per un’incursione prendevano delle pasticche che, si sentiva dire, venivano dalla Turchia. Non so che roba fosse, ma dopo averle ingoiate gli si spalancavano gli occhi e diventavano frenetici. Tra loro c’era anche un gran commercio di hashish e altre droghe». Di Islam, di fede, di religione – dice – si parlava poco: «C’erano predicatori pakistani ed egiziani e l’unica cosa di cui parlavano nei sermoni era la guerra (…), parlavano sempre e solo di ammazzare gente». Sono storie di vita umana. Asmae Dachan, siriana di Aleppo, dice: «Essere di Aleppo oggi – scrive su The Post Internazionale – significa provare nel proprio io violato il dolore di tutti gli altri popoli che hanno subito una simile violenza. Significa chiedersi che significato abbiano oggi la politica e la diplomazia. Significa guardarsi allo specchio e domandarsi cosa voglia dire davvero restare umani». «L’ultimo ricordo che ho di Aleppo è l’immagine di un tramonto estivo. La luce del sole calante che dipingeva case e macerie di un insolito colore arancio, gli stormi che si alzavano in volo a ogni sparo, a ogni esplosione. L’auto procedeva veloce sulla strada dissestata, piena di voragini grandi come crateri. La metamorfosi dovuta alla bombe. Mi sono voltata più volte, con la dolorosa sensazione di dover dare l’addio alla mia città appena conosciuta. Ho scattato le ultime foto e poi nascosto l’attrezzatura, prima di cambiare mezzo e compagni di viaggio e di avvicinarmi alla frontiera. Era l’agosto del 2013, io ero ad Aleppo mentre nella città di Ghouta, vicino Damasco, veniva commesso un massacro con l’uso, poi confermato dall’Onu, di armi chimiche.

“Così si viveva ad Aleppo Est”

http://www.tpi.it/mondo/siria/dachan-siria-aleppo-racconto-nostra-guerra

foto tratta da http://www.gdp.ch/mondo/il-dramma-di-aleppo-manca-tutto-id89338.html

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