di Alessandro De Pascale
Lentamente la tensione in Kosovo sembra finalmente calare, dopo l’attentato terroristico contro la polizia nazionale, avvenuto domenica 24 settembre per mano dei serbi. In seguito all’avvertimento di Stati Uniti e Unione Europea, contro l’imponente spiegamento militare dei giorni scorsi, il Capo di Stato Maggiore delle forze armate serbe, Milan Mojsilovic, ha assicurato lunedì 2 ottobre di aver riportato “alla normalità” il livello delle proprie truppe schierate al confine di questo piccolo Paese balcanico nato nel 2008 e da ben 23 anni protetto dalla missione KFOR (Kosovo Force) della NATO. In conferenza stampa, Mojsilovic ha inoltre dichiarato ai giornalisti che il numero dei soldati di Belgrado è stato così ridotto da 8.350 a 4.500 uomini. “Il regime operativo delle unità (…) nella zona di sicurezza” lungo la “linea amministrativa con il Kosovo”, ha poi aggiunto il più alto in grado delle forze armate serbe è tornato così “tornato alla normalità”.
Venerdì 6 ottobre, giornata nella quale si era tenuto un colloquio tra il Segretario di Stato USA Antony Blinken e il Presidente nazionalista serbo Aleksandar Vučić, il Governo americano aveva dichiarato che “il ritiro delle truppe della Serbia dal confine con il Kosovo sarebbe una mossa benvenuta”. Mentre l’UE, nell’ambito dell’abituale briefing quotidiano alla stampa di Peter Stano, portavoce dell’Alto Rappresentante dell’Unione Europea Josep Borrell, aveva evidenziato come la priorità delle istituzioni comunitarie, impegnate da tempo (per ora senza successo) nel cercare di normalizzare le relazioni Serbia-Kosovo, sia “una de-escalation e una stabilizzazione della situazione di sicurezza” tra i due Paesi. Stano ha inoltre spiegato ai giornalisti che, per l’UE, “non c’è posto per armi e forze di sicurezza accumulate nel continente europeo”. Motivo per cui, secondo Bruxelles, “devono tutti ritirarsi”.
Questo sul piano militare, perché su quello politico il clima continua ad essere tutto fuorché distensivo. Sempre in conferenza stampa, Miloš Vučević, ministro della Difesa serbo, ieri si è detto addirittura pronto ad invadere il Kosovo, da sempre ritenuto da Belgrado parte della Repubblica della Serbia, se un intervento militare di tale portata venisse ordinato dal Presidente Vučić. Il quale, per il ruolo ricoperto, è anche il comandante supremo delle Forze Armate. In tale estremo caso, Vučević ha inoltre sostenuto che “l’esercito serbo svolgerà questo compito in modo efficiente, professionale e con successo”.
In questo teatro di conflitto, come già accennato, c’è poi la NATO. L’Alleanza Atlantica è sul terreno del Kosovo con le proprie truppe dal 1998, anno di inizio dell’ultima guerra dei Balcani generata dalla lenta ma inesorabile dissoluzione dell’ex Jugoslavia iniziata nel 1980 alla morte dell’allora Presidente di quella Repubblica federale, Josip Broz Tito. Ovvero del maresciallo che l’ha guidata dal 1953, quindi da poco dopo la fine del secondo conflitto mondiale, ponendosi peraltro a capo del movimento dei cosiddetti ‘Stati non allineati’, cioè non appartenenti né ai Paesi della NATO, né a quelli dell’Unione Sovietica (URSS), che si fronteggiavano durante la Guerra Fredda.
Nel 1998, l’Alleanza Atlantica era intervenuta nel conflitto kosovaro al fianco degli albanesi-kosovari dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK), considerato fino al giorno prima dall’ONU organizzazione terroristica. Al termine di una campagna di bombardamenti durata tre mesi, che aveva costretto l’esercito serbo al ritiro da quel territorio, su mandato delle Nazioni Unite la NATO aveva poi schierato sul terreno ben 50mila uomini, poi ridotti gradualmente a 3.800 unità. Un contingente operativo soprattutto nel nord del Kosovo, a protezione delle enclave in cui tuttora vive ghettizzata la minoranza serba rimasta a vivere nel Paese (circa 120mila persone di confessione ortodossa, in un Paese a maggioranza albanese che conta 1,8 milioni di abitanti, in maggioranza musulmani).
Dopo l’aumento da parte della Gran Bretagna delle proprie truppe NATO, che ha deciso di schierare 200 uomini in più, anche il Ministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius, ha dichiarato che la Germania “sarà in grado di agire molto rapidamente”, nel caso si rendesse necessario. L’Alleanza Atlantica ha già fatto sapere che nel Paese saranno in campo 600 militari in più, provenienti da una forza di riserva mantenuta nell’area proprio per far fronte ad eventuali recrudescenze della tensione nella regione.
Dopo un lungo periodo di relativa calma apparente, in questo piccolo Stato (grande quanto l’Abruzzo), la situazione è tornata calda da un anno esatto, con la ‘crisi delle targhe’ scoppiata nell’ottobre 2022 per il rifiuto della minoranza serba di adoperare sui propri veicoli quella nazionale che riporta la bandiera di questa giovane nazione e del divieto introdotto da Pristina all’uso di quelle della Serbia, preferendo nella maggior parte dei casi girare senza, in segno di protesta.
Peggio ancora era andata il successivo mese di maggio, quando la polizia kosovara aveva disperso i manifestanti serbi, che volevano bloccare l’insediamento di alcuni sindaci di etnia albanese eletti nelle municipalità delle loro enclave. Non riconoscendo ancora una volta l’autorità dello Stato centrale, avevano infatti deciso di boicottare quel voto amministrativo. Negli scontri, avvenuti nell’area di Zvečan (465 abitanti, secondo l’ultimo censimento condotto nel 2011), che si trova nel nord del Paese e distante appena un’ora di auto dalla capitale Pristina, erano rimasti gravemente feriti anche 41 militari del contingente di pace KFOR della NATO, tra cui 14 italiani.
Sempre nell’area di Zvečan, la tensione è nuovamente riesplosa domenica 24 settembre, in seguito ad un attacco terroristico ad opera dei serbi, che aveva provocato l’uccisione di un poliziotto kosovaro (e il ferimento di un altro). Tra le forze di sicurezza di Pristina e il commando che si era asserragliato nel piccolo monastero del villaggio di Banjska (sotto la giurisdizione della chiesa ortodossa serba), gli scontri a fuoco erano durati un intero giorno. A sera, al termine del blitz delle forze speciali, si contavano quattro terroristi morti, sei feriti, altrettanti catturati, mentre dieci sarebbero riusciti a fuggire. Nei giorni seguenti, nell’ambito delle perquisizioni a tappeto condotte nell’area, la polizia kosovara aveva poi rinvenuto e sequestrato un vero e proprio arsenale da guerra (lanciarazzi anticarro, mitragliatrici, fucili di precisione e d’assalto dell’ex esercito jugoslavo, mortai, bombe a mano, mine terrestri e droni), venti Suv e un camion blindato.
La tensione tra i due Paesi è in realtà nata fin dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, avvenuta nel 2008 e attualmente riconosciuta da circa 100 nazioni (tra le quali Stati Uniti e la maggior parte dei Paesi occidentali), ma sempre rigettata dalla Serbia (come anche da Russia, Cina e da cinque membri dell’UE, come ad esempio dalla Spagna). Il Presidente nazionalista serbo Vučić, rivolgendosi al Premier kosovaro Albin Kurti (ma indirettamente anche alla NATO e all’UE), in questi giorni è tornato a ribadire: “Puoi ucciderci tutti, ma la Serbia non riconoscerà mai l’indipendenza del Kosovo, quella mostruosa creazione che avete realizzato bombardando il nostro Paese”.
A differenza di quanto di possa pensare guardando lo scacchiere delle attuali alleanze mondiali, alla Serbia alleata dalla Russia fa in realtà comodo la presenza della NATO in Kosovo, i cui militari come detto sono attualmente schierati a proprio a protezione della minoranza serba rimasta nel Paese. La quale vive in delle enclave dove la polizia nazionale raramente entra a pattugliare il territorio, mentre cittadini armati costituiscono spesso posti di blocco e barricate proprio per impedire l’accesso alle forze di sicurezza e ai doganieri del Governo centrale di Pristina.
Per saperne di più, leggi la nostra scheda conflitto sul Kosovo
Nella foto in copertina, un veicolo senza targa serbo-kosovaro dopo una protesta di piazza a Mitrovica nord (Kosovo) © Alessandro De Pascale