di Raffaele Crocco
Era un 1 gennaio. E se il primo giorno dell’anno è comunque l’inizio di qualcosa o almeno lo percepiamo così, quel 1 gennaio del 1994 fu davvero l’inizio di un’avventura. Andiamo per odine. Ero in Chiapas, quel giorno. Vivevo da qualche mese a San Cristobal de Las Casas, in fuga dalle guerre nei Balcani. Fu per caso che mi ritrovai ad essere il primo giornalista europeo a raccontare l’inizio della rivoluzione zapatista. Accadde di notte, uscendo dal ristorante in cui avevamo festeggiato il passaggio dell’anno affogandolo in molto alcol e una buona dose di cibo. L’occupazione della città da parte dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale – l’Ezln – iniziò mentre c’era la festa, prendendo le postazioni strategiche e occupando il municipio. La confusione fu immediata e tanta, come il panico di turisti e popolazione. Più lento fu capire cosa stava accadendo. Solo all’alba, nel zocalo, la piazza principale, chiesi ad un tipo alto, con passamontagna e pipa, chi comandasse lì. Mi guardò e mi disse “Comando io”. Avevo conosciuto il subcomandante Marcos.
Al di là del ricordo, quello di cui mi resi conto dopo, negli anni, è che quella mattina del 1 gennaio 1994 mi ero ritrovato a vivere l’inizio di una nuova fase della storia mondiale. Non sto esagerando, lo raccontano i fatti, lo dice quello che accadde dopo. Per scoprirlo, basta ricostruire pazientemente cosa accadde negli anni successivi. Dal Chiapas, dalla rivoluzione voluta e pensata da un pugno di popoli maya sfruttati da secoli, nacque il più serio e importante tentativo di dire basta alla dominante cultura del turbocapitalismo neoliberista. Pareva dominante e invincibile. Gli indigeni maya dimostrarono che non era così. Fecero capire che esistevano spazi di rivolta e cambiamento. Certo, bisognava andare a prenderseli, ma c’erano.
In quegli anni, ricordiamolo, gli Stati Uniti si erano autoproclamati “sceriffi del Mondo”. L’Unione Sovietica era collassata tre anni prima, trascinando nel gorgo anche gli ideali e i modelli alternativi al neo capitalismo statunitense ed europeo. Le voci di dissenso erano rimaste poche, isolate e ridicolizzate. Soprattutto, non c’erano riferimenti, tutto pareva scritto e deciso. Vinceva la rassegnazione.
All’improvviso, si riaccese la luce. Dal Chiapas, al grido di “Tierra y Libertad” arrivò un’alternativa. Un’idea che rimetteva gli esseri umani al centro della vita quotidiana e sposava il locale, cioè l’identità indigena e campesina, all’internazionale, vale a dire una visione diversa della distribuzione della ricchezza e dei diritti di tutti e di chiunque. Era un’idea così semplice e così forte da fermare quello che pareva l’inevitabile trionfo dell’iper capitalismo neo liberista, privo di regole e di umanità.
Dal Chiapas le parole degli zapatisti arrivarono ovunque. Nacquero decine di movimenti alternativi, che si aggregarono, iniziando a riformulare idee e ipotesi, a dire “ora basta”, a protestare. Iniziarono i confronti, si crearono i Forum Mondiali, si affermarono visioni diverse del pacifismo, dell’ambientalismo.
Per quasi un decennio, le alternative sembrarono possibili. È vero: poi, di nuovo, tutto cambiò. Le voci dell’alternativa vennero messe a tacere o finirono per essere inglobate, masticate e rielaborate dal sistema. In Chiapas, la rivoluzione voluta dal popolo indigeno resiste, ma non ha vinto. La gente continua a morire di diarrea, in case prive di servizi e di pavimento. Nei campi ci si schianta ancora dal lavoro, per ricavare poca paga e fare ricco qualcun’altro. Certo, l’Ezln c’è ancora e vigila sul territorio, ma la spinta rivoluzionaria si è esaurita da tempo.
Un fallimento, quindi? No, tutt’altro. La rivoluzione zapatista resta e rimarrà un modello possibile di cambiamento. E il 1 gennaio del 1994, esattamente trent’anni fa, è una data da ricordare come data importante della storia umana. È il giorno in cui alcune donne e uomini di una sperduta regione americana gridarono al Mondo che cambiare è possibile. Loro ci hanno provato. Ora tocca a noi.
*Un murales del caracol zapatista di Oventic in Chiapas, foto di Alice Pistolesi