Fuoco all’Amazzonia

Il polmone del mondo è in fiamme. La guerra di Bolsonaro alla foresta, ai suoi abitanti e alla scienza che la tutela, sbarca oggi anche al vertice G7 di Biarritz

di Lucia Frigo

La foresta amazzonica brucia, ormai incessantemente da più di due settimane. L’ Inpe, l’agenzia spaziale brasiliana, ha rilevato  oltre 9’500 incendi soltanto nell’ultima settimana, da sommarsi al numero record di questo mese: 75’335 fuochi, un picco mai registrato dall’agenzia che da vent’anni monitora la foresta dall’alto. La maggior parte dei territori in fiamme si trova in Brasile, ma il fuoco si estende anche oltre il confine boliviano e quello paraguayano. Il caso sbarca oggi a Biarritz dove si apre il G7 e dove il presidente francese Macron ha voluto porre la questione in cima all’agenda del vertice.

Si tratta di un’emergenza ambientale dalle proporzioni inaudite, per la quale la comunità brasiliana e internazionale ha subito puntato il dito verso il governo di Jair Bolsonaro. Bolsonaro (a si nistra nell’immagine) ricopre la carica di Presidente del Brasile soltanto dal 1 Gennaio 2019, ma la sua politica ha preso una direzione radicale nei confronti della foresta amazzonica già dall’inizio del suo mandato: alla conservazione della foresta pluviale più grande del pianeta (la cui ricca biodiveristà è unica al mondo) ha preferito l’industrializzazione, incoraggiando la deforestazione per fare spazio allo sviluppo economico della regione boschiva.

È anche per questo che gli incendi sono aumentati dell’84% rispetto allo scorso anno: la maggior parte di essi sembra essere di origine dolosa. È la mano dell’uomo ad appiccarli, approfittando del cambiamento climatico che ha portato una siccità da record, così da fare spazio a nuove aziende agricole o a terreni destinati all’allevamento. I giornali brasiliani raccontano di villaggi di agricoltori nei quali si organizzano vere e proprie dias do fogo, giorni del fuoco nei quali approfittare dell’emergenza e della scarsa capacità di risposta delle autorità.

La deforestazione illegale non è una novità, ma negli ultimi mesi – da quando Bolsonaro ha tagliato i fondi per la difesa e la preservazione dell’Amazzonia – è aumentata a dismisura. A pagarne le spese sono le decine di popolazioni indigene che da sempre popolano la foresta: violenze e omicidi nei confronti delle tribù sono aumentati con la vittoria elettorale del leader di estrema destra. Da sempre il neo presidente sostiene che queste popolazioni occupino “troppo spazio” all’interno dei territori protetti, e che l’uso della loro terra dovrebbe essere “rivalutato”. Un genocidio lento, a colpi di sistema sanitario negato, privazioni di diritti, e terra strappata loro e bruciata.

Da tutte queste accuse, Bolsonaro si difende puntando il dito contro le ONG. L’accusa, in seguito ritirata per evidente mancanza di prove, era quella per cui le organizzazioni ambientaliste stessero appiccando il fuoco per vendicarsi del taglio dei fondi e per creare problemi al governo brasiliano. Una difesa traballante, che mal cela la difficoltà del governo di giustificare alla comunità internazionale il trattamento che sta riservando al “polmone del mondo”. Il governo di  Bolsonaro ha comunque  licenziato Ricardo Magnus Osorio Galvao, direttore dell’Inpe, proprio per la diffusione  dei dati sulla deforestazione nel Paese. Un problema non solo brasiliano.

I danni che si devono alla deforestazione, ovviamente, non sono infatti solo nei confronti dei popoli indigeni. L’Amazzonia, da sola, fornisce il 20%  dell’ossigeno prodotto da tutte le foreste del pianeta, e nonostante questo sta sparendo alla velocità di tre campi da calcio al minuto. Lo aveva  rivelato proprio il capo dell’agenzia spaziale brasiliana Ricardo Galvão, prima di essere licenziato con l’accusa di “falsificare i dati per screditare il Brasile”.

Fonte: Global Forest Watch

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