Egitto, una democrazia di cartone

di Tommaso Andreatta

Il 15 gennaio Giulio Regeni avrebbe compiuto 30 anni. È un giallo sempre più sbiadito quello che accompagna le commemorazioni e le manifestazioni per conoscere la verità sulle circostanze della morte del ricercatore di Fiumicello (Udine).

La campagna è quella di Amnesty International. Gli striscioni restano appesi ai muri, ma la verità è ben lungi dall’essere raccontata.

Regeni è stato assassinato tra il gennaio e il febbraio 2016. Era un giovane dottorando presso l’Università di Cambridge. Venne rapito il 25 gennaio 2016, giorno del quinto anniversario delle proteste di piazza Tahrir. Il suo corpo fu ritrovato senza vita il 3 febbraio successivo, nelle vicinanze di una prigione dei servizi segreti egiziani.

«Grazie Giulio per avermi insegnato tante cose. Resta nel mio cuore l’energia del tuo pensiero. Il tuo pensiero, per amare, comprendere, costruire tolleranza» recitava l’ultimo messaggio a lui rivolto da mamma Paola.

Intanto in Egitto il silenzio rimane assordante. È un Paese sempre più lontano da ciò che noi chiamiamo «democrazia». Il 26 marzo si terranno le elezioni presidenziali, ma l’esito è scontato. Si tratta di una vittoria annunciata.

L’uscente Abdel Fattah al Sisi sarà anche il nuovo entrante, dicono gli osservatori internazionali. I potenziali avversari si sono ritirati o sono stati messi nella condizione di farlo. C’è chi è stato interdetto.

Il vero possibile avversario del presidente al Sisi era Ahmed Shafik. Si tratta dell’ex generale che nel 2012 perse di un soffio le elezioni. Il governo lo ha obbligato a fare un passo indietro.
The Guardian rivela che l’esercito si sta piano piano “comprando” i media privati, in modo che questi possano sostenere al Sisi. Insomma, rivela la stampa britannica, tutto lascia pensare che quelle di quest’anno saranno elezioni-replica di quelle del 2014 quando l’elettorato, a quanto pare, garantì il 96% delle preferenze proprio ad Abdel Fattah al Sisi.

L’Egitto è considerato una «democrazia di cartone», con l’esercito che svolge un ruolo di primo piano nella gestione diretta della “cosa pubblica” e lo fa con i mezzi messi a sua disposizione. Nel 2013 furono i soldati a reprimere con la violenza le proteste degli oppositori del regime.

I militari erano saliti al potere rovesciando il presidente Mohamed Morsi, dei Fratelli Musulmani, e uccidendo più di 800 persone. «Nei giorni scorsi sono state eseguite le condanne a morte di quattro detenuti, legati ai Fratelli Musulmani» riporta Internazionale.

La linea dura di al Sisi viene sistematicamente fatta passare sotto silenzio dai Paesi Occidentali. Ma l’atteggiamento del Palazzo sta portando alla nascita di gruppi armati violenti. Si sono susseguiti omicidi e atti di terrorismo. Nel mirino ci sono anche le forze dell’ordine.

La rivoluzione egiziana del 2011 viene descritta come qualcosa di talmente lontano da essere dimenticato quale punto massimo della «primavera araba». Il processo di democratizzazione del Paese appare solo come un ricordo.

Al Sisi è autore di misure di grande austerità che sembrano avere schiacciato i cittadini tanto quanto la violenza. La svalutazione della moneta, con il conseguente aumento dei prezzi dei beni essenziali, ha portato il Paese verso un debito mai visto. Il malcontento, dicono i corrispondenti delle agenzie di stampa, è palpabile.

È sempre The Guardian a metterci il carico da novanta: «Al Sisi dovrebbe preoccuparsi di quello che sta succedendo nel suo Paese. Eppure sembra pensi solo a costruire monumenti a se stesso». Il Tasso di povertà è cresciuto di 25 punti percentuale in due anni. Manca la ricchezza, manca la democrazia e manca la trasparenza. In un panorama di questo tipo il caso Regeni resta aperto. E in queste condizioni è difficile immaginare una svolta.

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