di Alice Pistolesi
Popolazione allo stremo, manovre economiche disperate, malcontento sociale, manifestazioni di dissenso e conseguente repressione. Semplificando molto questa sembra essere la drammatica situazione che accomuna tre Paesi dell’Africa Centro-Orientale: Sudan, Repubblica Democratica del Congo e Zimbabwe.
La rabbia sociale in Congo non si è placata con l’insediamento del nuovo presidente Felix Tshisekedi. Domenica 27 gennaio gli studenti dell’Università di Lubumbashi sono scesi in strada per protestare contro il taglio di acqua, elettricità e l’aumento delle tasse accademiche. Lo scontro con la polizia è stato duro e il bilancio parla di tre morti.
Il malcontento non riguarda solo gli studenti. La scorsa settimana il trasporto pubblico è rimasto paralizzato nella capitale Kinshasa per lo sciopero dei dipendenti della compagnia di trasporti del Congo (Transco). L’eredità dell’era Kabila non è di facile gestione: il Paese è infatti preda di corruzione endemica, dei conflitti nelle province dei Kivu, dei Kasai e dell’Ituri, di condizioni di vita drammatiche e dello sperpero della ricchezza mineraria del Paese di cui i congolesi non beneficiano minimamente.
Molto critica la situazione anche in Zimbabwe, dove si sta aggravando la crisi umanitaria e politica. Le riserve di acqua del Paese sono quasi finite e la siccità non accenna a diminuire. Per irrigare i campi gli agricoltori devono acquistare l’acqua da chi la estrae dal terreno ma costa moltissimo. La crisi idrica si unisce poi alla carenza di benzina e il conseguente aumento, del 150 per cento, del prezzo del carburante. Con questa impennata, il prezzo della benzina in Zimbabwe, secondo le stime di GlobalPetrolPrices.com, è diventato il più alto del mondo. Tutti questi motivi hanno fatto esplodere la violenza in strada. Migliaia di persone sono scese in piazza nei primi giorni di gennaio 2019.
La commissione per i diritti umani dello Zimbabwe, organismo creato dal governo, ha denunciato “sistematiche violazione da parte delle forze dell’ordine, torture e botte”, nei dieci giorni di scontri. Le vittime di queste giornate di violenza sono state 12 e molti sono stati gli arresti a partire dal pastore Evan Mawarire, attivista che si occupa di diritti umani e Japhet Moyo, il capo del sindacato. A causa della violenza dell’esercito in molti in Zimbabwe sono convinti che il presidente non sia in grado di tenere sotto controllo le forze armate, che pare siano state fondamentali nell’elezione di Mnangagwa un anno fa.
In subbuglio anche il Sudan, scosso da violente manifestazioni che chiedono le dimissioni di Omar al-Bashir e protestano contro l’aumento del costo del carburante (triplicato), l’incremento dei beni di prima necessità e dei beni alimentari. Dall’inizio delle proteste (nel dicembre 2018) sono state oltre mille le persone arrestate. Le maggiori manifestazioni si sono svolte a Khartoum e Omdurman. Qui la polizia ha bloccato le strade e le piazze per impedire i raduni e ha usato gas lacrimogeni, granate stordenti, proiettili e acqua sporca per disperdere la folla.
Nel corso di una conferenza stampa durante una visita in Egitto, il presidente sudanese (sul quale pende tuttora il mandato di cattura internazionale a causa dei crimini di guerra commessi di Darfur) ha denunciato gli ‘agenti stranieri’ di essere i responsabili delle manifestazioni nel Paese. “C’è un problema in Sudan, non possiamo negarlo – ha detto – Ma non ha la scala e le dimensioni fornite dai media. Questo è un tentativo di replicare in Sudan quella che è stata chiamata “Primavera araba””. In Egitto Bashir ha richiesto il sostegno politico di Al-Sisi in questo momento cruciale per il suo governo.
Sulla questione sudanese è intervenuto il Dipartimento di Stato americano che ha chiesto il rilascio di tutti “i giornalisti, gli attivisti e i manifestanti pacifici arbitrariamente detenuti” e un’inchiesta seria sulle violenze. Gli Stati Uniti hanno poi minacciato Khartoum di una revisione dei rapporti bilaterali. Il precedente embargo al Paese da parte degli Stati Uniti era iniziato nel 1997 e si era concluso nel 2017. Il Sudan era stato accusato di sostegno al terrorismo internazionale.