Nuovi fascismi nei nostri vicoletti ciechi

di Edvard Cucek

E’ il 2017 l’annata cruciale e fruttuosa per il risveglio dei fantasmi che richiamano le popolazioni delle repubbliche ex jugoslave a “rivedere” il proprio passato, i tempi in cui i criminali di guerra diventarono eroi (non di tutti fortunatamente) se non martiri, combattenti per la liberazione dei propri popoli e per ‘l’unita nazionale’. E tutto questo anche se i contesti storici sono molto diversi.

Senza la potente influenza del ventennio fascista nella vicina Italia, senza la forte e sofisticata propaganda proveniente dalla Germania e Austria nazista sicuramente i criminali di guerra processati e condannati durante la seconda Guerra mondiale non sarebbero mai diventati attori sulla scena politica dell’epoca e forse non sarebbero nemmeno diventati artefici della guerra che esclude l’esistenza del diverso in ogni immaginabile forma, razza, religione, appartenenza politica o orientamento sessuale.

Partiamo dalle due repubbliche più grandi della ex federazione Jugoslava.

Croazia

Sorprende il coraggio con il quale alcuni politici e leader di partito, in primis del partito di maggioranza che governa attualmente, HDZ (Unione democratica croata), non perdono occasioni per relativizzare alcuni fatti storici come l’esistenza dei campi di concentramento sul territorio dello Stato fantoccio “Stato Indipendente Croato” di cui il più conosciuto è quello di Jasenovac. Il più grande campo di sterminio di ebrei, serbi, rom, omosessuali, presunti e veri comunisti o semplici cittadini, anche croati e cattolici, che in qualche modo si opponevano al regime nazifascista guidato da Ante Pavelic, condannato come criminale di guerra.

L’ultima provocazione arriva proprio dallo stesso paese che ancora porta il peso storico di essere un posto che ha “ospitato” la struttura più vergognosa della storia del popolo croato. Il popolo che d’altronde ha dato alcuni dei più grandi e conosciuti antifascisti e combattenti contro i regimi quisling nei propri paesi.

Per commemorare i soldati delle formazioni della ultima guerra che vide la dissoluzione violenta della Jugoslavia e la nascita della Repubblica di Croazia indipendente dentro ai confini garantiti dalla ultima Costituzione federale del 1974, c’è una lapide.

I soldati caduti e commemorati in questo caso difendevano il territorio croato dalla Armata Popolare Jugoslava, che ormai non era più quella di prima, e contro i paramilitari serbi che negli anni novanta portavano i simboli cetnici e chiamavano loro stessi in tal modo. Proprio come i loro amati “martiri” della Seconda Guerra mondiale.

Sulla lapide questa volta è apparsa anche la scritta con il saluto ufficiale dello stato fantoccio “Stato Indipendente Croato” in forma originale “ ZA DOM SPREMNI” , la versione croata di “ obbedire, credere, combattere” direi, tradotto in italiano “ PER LA PATRIA PRONTI” .

Un saluto che, dopo la caduta di questo regime nazifascista e dopo la nascita della nuova federazione jugoslava, era assolutamente vietato perché  richiamava i tempi dello sterminio di massa. Solo a Jasenovac diverse decine di migliaia furono le vittime innocenti, tra le quali tanti minorenni e addirittura neonati.

Non sorprende che dopo la condanna di questo gesto da parte di tutto il mondo democratico, accademico e liberale, con gli attivisti antifascisti in prima fila, si sono mobilitati i soliti politici della destra estrema, qualche giornalista in eterna battaglia contro la verità, varie associazione dei veterani della guerra di liberazione croata e i loro sostenitori, molto spesso non residenti in Croazia.

Sorprende invece il tentativo di placare le polemiche dalla parte della Presidente della Repubblica Kolinda Grabar Kitarovic.

Ultimamente qualche intervento sui piani dei rapporti internazionali e nazionali fatti dalla Presidente, anche visti con una lente d’ingrandimento diversa considerato che si tratta di paese a tutti gli effetti membro della Comunità Europea, sono stati delle gaffe, che a qualcuno sembravano programmate.

In questo caso, secondo la Presidente il saluto incriminato è quello con origini che si perdono nella “notte dei tempi”, un saluto storico che esiste da quando esiste il popolo stesso, purtroppo infangato e incriminato durante il periodo collaborazionista della Croazia con i regimi fascisti e nazisti.

Confrontando una massiccia presenza di documenti storici che confermano quante difficoltà ha avuto il regime degli Ustascia/Insorti (movimento collaborazionista con il nazi fascismo) nell’introdurre, o meglio, imporre questo saluto nuovo di zecca nell’uso quotidiano, una dichiarazione della prima cittadina sembra un complotto da parte dei consiglieri presidenziali contro la Presidente stessa. Una figuraccia insomma.

Questo saluto “storico” ha una data di produzione. Lo introdusse lo stesso Ante Pavelic nel 1932. Ci sono voluti quasi dieci anni, la proclamazione dello Stato Indipendente Croato e l’introduzione delle leggi razziali per convincere i cittadini che il nuovo saluto fosse cosa obbligatoria.

Alla difesa dei ‘valori’ dell’epoca nazifascista nelle terre croate insieme ai cantanti e qualche attore si è aggregata quindi anche la Presidente croata.

Serbia

Ci sono voluti tanti anni di duro lavoro e falsificazioni dei fatti storici per poter riabilitare il generale della vecchia, ovvero della prima Jugoslavia, Dragoljub Draza Mihajlovic.

L’operazione si è conclusa con la sentenza del Tribunale nel 2015.

L’ufficiale dell’esercito fedele al Re serbo in esilio, collaboratore dei fascisti e nazisti, responsabile della pulizia etnica e dello sterminio in Bosnia occidentale, Serbia e Montenegro era semplicemente un anticomunista convinto e questa scelta lo ha portato a mettersi contro i partigiani jugoslavi e le forze schierate contro la Germania nazista e l’Italia fascista. Il processo davanti al tribunale era montato e l’imputato Mihajlovic non ha avuto la possibilità di difendersi. La sentenza del tribunale dice che tutte le accuse del passato sono ancora da dimostrare.

Il colonnello Mihajlovic è stato processato e giustiziato nel 1946. L’unico problema da risolvere prima della sentenza definitiva del 2015 era la data di cattura e il coinvolgimento di un altro personaggio, camerata, amico e fedele seguace del Generale, Nikola Kalabic.

Questo boia, criminale di guerra, collaborazionista e temibile capo dei Cetnici che operavano soprattutto in Serbia e in Montenegro venne catturato dopo una azione accuratamente condotta dai servizi segreti della Jugoslavia comunista appena liberata conosciuti come OZNA (Reparto per la Protezione del Popolo). La data della cattura che emerge dai documenti ufficiali è il 5 dicembre 1945. Nei mesi successivi Kalabic troverà un’intesa con i vertici dell’OZNA: si era reso disponibile a collaborare nella realizzazione della trappola per catturare il suo capo Draza Mihajlovic. Non per convinzione ma per semplice contro favore della protezione da parte dello Stato e una nuova identità.

Facendo in modo che a Mihajlovic arrivasse un messaggio per un incontro finalizzato a concordare con gli agenti britannici impegnati nei lavori preparativi per stravolgere il nuovo ordine di Tito nella nuova Jugoslavia, Kalabic ha permesso ad OZNA di trovare il Generale al posto prestabilito il 13 marzo 1946. La grande fuga di Mihajlovic è finita in quel giorno.

Per i revisionisti e le forze retrograde, simpatizzanti del nazifascismo della Serbia odierna, questo è uno degli episodi più vergognosi. Accettare che un ‘eroe’ avesse tradito un altro, il più grande di tutti i grandi era contro ogni concetto della “nuova storia” da riscrivere.

La storia che conosciamo non lascia molto spazio ai dubbi che Kalabic fosse un “traditore” e che dopo la cattura di Mihajlovic abbia vissuto in luoghi protetti e sorvegliati dagli agenti dei servizi segreti jugoslavi almeno per due anni. Dopo, di lui non si è più parlato. Giravano le informazioni mai confermate del suo destino e della sua fine.

Nel 2011 dopo la richiesta della nipote di Kalabic di riprendere il cognome di nonno, iniziò il processo giudiziario per la riabilitazione del criminale di guerra. Il motivo principale della nipote era l’eredità. Secondo le leggi della Jugoslavia socialista e comunista ai criminali della Seconda Guerra mondiale processati e condannati o uccisi opponendosi alla cattura, andavano confiscati tutti i beni e le proprietà senza nessuna possibilità di restituzione, anche ai discendenti.

Nel 2011 le leggi della Jugoslavia di Tito non obbligavano più nessuno. Era il momento per “concludere” la storia segnata da una delle ingiustizie che il popolo, nemmeno dopo più di 60 anni, ha potuto accettare.

Dopo i racconti dei testimoni rimasti in silenzio per tanti lunghi anni e le analisi dei teorici ingaggiati nel produrre la documentazione necessaria, il Tribunale ha deciso che Nikola Kalabic non è mai stato un criminale di guerra e, fatto molto importante per quello che succederà 4 anni dopo, stabilisce la data precisa della sua morte: il 13 gennaio del 1946.

Per stabilire la data esatta della morte è bastata la testimonianza di un prete ortodosso pensionato. Kalabic a questo punto non è mai stato arrestato, imprigionato e, la cosa più importante per il processo di riabilitazione, non ha mai potuto collaborare con i servizi segreti di Tito nella cattura del generale Mihajlovic essendo già morto da due mesi precisi.

Per riassumere il tutto la decisione del Tribunale per i crimini di Guerra è la seguente:

Non avendo Kalabic mai avuto un processo legale non è mai potuto essere classificato come criminale di guerra (un eventuale processo d’appello lo potrebbe anche dimostrare) e di conseguenza le proprietà gli sono state confiscate illegalmente. La nipote può riavere che le spetta. I circoli simpatizzanti del movimento e dell’operato dei Cetnici possono stare sereno in quanto ormai morto Kalabic non è stato in grado di tradire il loro generale Draza Mihajlovic.

I ruoli di entrambi erano finalmente messi in “ordine”. La Serbia moderna poteva ripartire dall’inizio mettendo la storia recente in un’altra ottica molto più favorevole per la nazione stessa.

Bosnia ed Erzegovina

Ufficialmente la guerra in Bosnia ed Erzegovina ebbe inizio il giorno in cui a Bascarsija, centro storico e artigianale di Sarajevo, fu ucciso il padre dello sposo serbo durante i festeggiamenti della nozze. Era il 1 marzo del 1992, periodo del referendum dell’indipendenza della Bosnia ed Erzegovina dalla Jugoslavia. Era la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

I serbo bosniaci insieme all’Armata Popolare Jugoslava, ormai in fase di trasformazione nelle forze fedeli al regime di Slobodan Milosevic e al servizio di un popolo (quello serbo) e contro tutti gli altri popoli jugoslavi, erano chiamati alle armi. A distanza di più di vent’anni nessuno pensa che quel gesto atroce potesse innescare un conflitto di dimensioni tuttora non misurabili. Si sa che senza la morte del padre dello sposo Nikola Gardovic ci sarebbe stato un altro sconosciuto da sacrificare. Il mandante del sicario, dopo approfittatore durante l’assedio di Sarajevo, Ramiz Delalic detto “pelato”, non è mai stato scoperto: i loro nomi (si trattava di una organizzazione) non sono mai stati pubblicati.

Fu l’inizio di una tragedia sanguinosa durata 4 anni ricordata anche come una delle più grandi vergogne dei tempi moderni.

Che la lezione che abbiamo imparato, noi europei ed i sarajevesi in primis, è quasi inesistente lo dimostra la recente decisione del consiglio comunale della Città di Sarajevo, di dedicare un’intera via ad uno dei collaboratori del nazifascismo, tale Mustafa Busuladzic, scrittore, mussulmano e sostenitore dell’antisemitismo in ogni forma all’epoca conosciuta. La via che oggi porta il nome di Busuladzic prima era dedicata ad uno degli eroi della resistenza partigiana, l’antifascista Fuad Midzic.

Nelle zone della maggioranza serbo bosniaca, come a Banja Luka, la guerra, ovvero i metodi che lasciavano spazio alla maggioranza serba di comportarsi da guerrieri iniziò con l’attentato ad un poliziotto di origine serbo bosniaca in pensione che lavorava per i servizi segreti della Jugoslavia incompleta composta ormai solo dalla Serbia con il Kosovo e il Montenegro. Oggi sappiamo che quella forma di intelligence apparteneva e lavorava per la corrente dei politici jugoslavi favorevoli ad una soluzione pacifica in caso di dissoluzione della Federazione Jugoslava.

Il 24 aprile 1992 davanti a uno dei bar più frequentati venne ucciso Miodrag Susnica, il poliziotto conosciuto in tutta la città. Il caso misterioso e curioso senza nessuna significante svolta per lunghi 24 anni.

In questi due decenni e mezzo la famiglia Susnica ha subito di tutto tranne la comprensione e la protezione dalla parte delle autorità.

I Susnica hanno addirittura dovuto lottare contro la decisione del sindacato di polizia che il nome del loro padre, marito e poliziotto onesto finisse sulla lapide del monumento dedicato ai poliziotti ed altri che hanno perso la vita durante la guerra (per i serbo bosniaci) difensiva e patriotica.

Miodrag Susnica non è morto durante il conflitto né sul fronte, né durante le azioni militari organizzate dai nemici.

La morte di quest’uomo è stata voluta e ordinata dal quartiere generale della cosiddetta “difesa della città di Banja Luka” con le loro forze armate conosciute come “berretti rossi”.

Proprio questa primavera un giornalista di nome Slobodan Vaskovic, ricercatore coraggioso,  entrato in possesso dei documenti dell’epoca, compresi i verbali della polizia dal 1992 in poi, e ha pubblicato tutto.

Certo che sapere, oltre alla famiglia Susnica che lo sapeva quasi dal giorno seguente dell’omicidio, che il mandante e l’organizzatore dell’attentato a Susnica insieme ad altri due potentissimi cittadini della Banja Luka di oggi è un medico, all’epoca studente di medicina e oggi né più né meno che il Presidente del Consiglio della Repubblica Srpska Nenad Stevandic, ha suscitato incertezza e scalpore. Questa morte faceva parte del progetto in cui per l’attentato sono stati, la stessa notte, accusati i membri di due famiglie importanti di Banja Luka, una cattolica e una musulmana con lo scopo di creare i presupposti per quello che è successo dopo. Perquisizioni, rapine, maltrattamenti , espropriazioni di proprietà e, infine, una sofisticata pulizia etnica.

Sia i familiari che il giornalista hanno dovuto lasciare la città per un periodo. Ci si aspettava anche la vendetta di chi governa ancora, contro i primi sospetti, la famiglia di Susnica ma poi anche qualche intervento di tribunali, forze dell’ordine oppure l’arresto o l’avviso di garanzia nei confronti di Stevandic e degli altri due coinvolti. Dalla scoperta e la pubblicazione dei documenti della polizia diversi giornali scrivevano che, nonostante la reazione, la legalità sia completamente assente e che tutta la regione fosse a conoscenza di quanto accaduto nell’aprile del 1992.

Non si è mossa una foglia lungo i viali di questa città sempre piena di sorprese. Un’altra morte “poco importante” all’altare dei vincitori delle guerre che non sono mai esistite.

Caso chiuso?

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