di Elia Gerola
Nella tarda serata del 21 gennaio di ritorno da Teheran, appena atterrato all’aeroporto di Vienna, il diplomatico argentino Rafael Mariano Grossi, ha annunciato il raggiungimento di un importante “accordo bilaterale tecnico” transitorio, della validità di 3 mesi, tra l’organizzazione multilaterale da lui presieduta, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) e l’Organizzazione per l’Energia Atomica dell’Iran. I due enti eminentemente tecnici, ma responsabili della gestione di una tecnologia altamente politicizzata e militarizzata qual è l’energia atomica, hanno trovato in extremis un punto di incontro che dovrebbe permette alla comunità internazionale di vedere sospesa, almeno temporaneamente, una legge approvata il 1 dicembre 2020 dal Parlamento iraniano.
Il provvedimento legislativo interno in questione, denominato “Azione Strategica per cessare azioni e proteggere gli interessi della nazione iraniana”, è comunque entrato in vigore il 23 gennaio 2021. Il suo contenuto impedisce ai funzionari AIEA di poter sorvegliare ed ispezionare, come previsto dall’Accordo sul Nucleare Iraniano (JCPOA), il programma nucleare della repubblica islamica, privando l’ormai controverso trattato, da anni in predicato di saltare, di due elementi cardine: la trasparenza e la verificabilità della condotta iraniana in ambito nucleare. La mossa iraniana avviene dopo che per anni le richieste di sospensione delle sanzioni economiche non sono state accolte dagli Stati Uniti.
“Stabilizzare una situazione molto instabile”, in questo modo il Direttore dell’AIEA, ha spiegato ai cronisti lo scopo del suo intervento diplomatico lampo in Iran. Il fine è appunto quello di guadagnare tempo, assicurando che nei prossimi 90 giorni Teheran rispetti le salvaguardie negoziate con l’AIEA stessa, in deroga alla recente atto legislattivo iraniano. La portata di queste decisioni, eminentemente tecniche, è molto più ampia però. La mediazione dell’AIEA permette infatti alla comunità internazionale di assicurarsi una finestra temporale preziosa, durante la quale vi saranno il monitoraggio delle attività iraniane e potranno così essere condotte in sicurezza, nuove negoziazioni per ristabilite la piena applicazione di tutte le Parti del trattato.
L’attenzione è ora puntata sul nuovo inquilino della Casa Bianca, il Presidente democratico Joe Biden, che attraverso il proprio Segretario di Stato Antony Blinken ha lasciato trapelare di ritenere il JCPOA un “traguardo chiave del multilateralismo diplomatico”, e di essere quindi disposto a risiedersi al tavolo diplomatico con l’Iran, a dispetto di quanto fatto dal predecessore Trump. Del resto Biden era Vicepresidente nell’Amministrazione americana che mediò e firmo il trattato. La situazione è però più complessa, tra i diplomatici di Washington serpeggia infatti il timore che un eventuale ritorno nell’alveo del trattato, risulterebbe in una diminuzione del presunto leverage, ovvero vantaggio in termini di potere relativo nei confronti di Teheran, guadagnato durante l’era Trump. I rapporti con l’Iran sono però ai mini da anni, i toni risultano avversariali, l’incertezza strategica non può quindi che essere aumentata. Insomma, la “massima pressione” esercitata dall’Amministrazione Trump contro l’Iran non ha aumentato la sicurezza nè degli Usa nè del globo, bensì ha minato l’efficacia dello strumento che più di tutti ha incrementato la trasparenza e diminuito il rischio di proliferazione nucleare militare dell’Iran, l’Accordo sul Nucleare Iraniano.
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ll Piano di Azione Congiunto Globale (JCPOA) sul nucleare Iraniano è un accordo multilaterale siglato nell’estate 2015 dalla Repubblica Islamica dell’Iran con i cosiddetti P5, il gruppo dei 4 Stati legittimamente dotati del nucleare militare sulla base del Trattato di Non Proliferazione Nucleare del 1968 Usa, GB, Francia, Russia, Cina, più la Germania e l’Unione Europea. La logica del trattato è un do ut des tipico della politica internazionale. Il fine è quello di assicurare la non proliferazione nucleare orizzontale (ovvero da zero), dell’Iran.
Teheran nel 2015 si è appunto impegnata a non perseguire la capacità militare nucleare, assicurandosi però la possibilità di continuare a sfruttare per scopi pacifici e civili l’energia nucleare. Elementi cardine del trattato sono la trasparenza e la verificabilità della iraniana, assicurate dalle periodiche ispezioni condotte dai tecnici dell’AIEA, volte appunto a certificare la concreta buona fede di Tehran. D’altra parte il documento impegna invece le altre Parti contraenti a cessare le sanzioni economiche che già nel 2015 stritolavano l’economia iraniana ed aerano state imposte sia dal Consiglio di Sicurezza Onu che da vari Stati (soprattutto USA) per punire, segnalare disappunto e contenere la minacciosa proliferazione nucleare iraniana.
L’Accordo venne raggiunto in una congiuntura storica peculiare, in cui fattori umani e contestuali giocarono un ruolo cruciale. Da una parte a Washington vi era Barak Obama, il primo Presidente afroamericano Usa, insignito del Premio Nobel per la Pace nel 2009 e al termine del suo secondo mandato: svincolato quindi dalla cautela tipica di chi cerca la rielezione. Dall’altra vi era invece il Presidente iraniano Rouhani, un moderato al primo mandato, in cerca di rielezione e voglioso di evitare il peggioramento delle condizioni economiche che l’Iran stava vivendo a causa delle sanzioni economiche.
Due i dati principali del trattato JCPOA sui quali vale la pena di focalizzarsi: 5060 centrifughe e 3,67% di U-235. Il primo è il massimo numero consentito di centrifughe attive atte all’arricchimento dell’uranio con l’isotopo U-235; pre-accordo erano stimate essere 20mila. La seconda è invece la percentuale della concentrazione di U-235, presente nel materiale fissile impiegato nei reattori nucleari. Il cosiddetto weapon-grade, ovvero la concentrazione di U-235 necessaria per fabbricare un ordigno nucleare è pari al 90%, in natura l’U-235 sarebbe solo l’1%, mentre per produrre energia nucleare civile il 2-3% è sufficiente. Perché allora imporre una soglia così bassa come quella del 3,67%? Perché l’arricchimento è particolarmente difficile e dispendioso soprattutto all’inizio: è più difficile e lungo raggiungere il 20% dal 1% anziché il 90% una volta raggiunto il 20%. Vi sono poi ulteriori disposizioni vincolanti: la limitazione delle riserve di acqua pesante accumulata, la
sospensione della ricerca in ambito militare nucleare così come la chiusura del sito di arricchimento di Fordo, e la riconversione del reattore nucleare di Arak.
L’obiettivo ultimo in termini di sicurezza internazionale, è quello di dilatare il cosiddetto breakout time, ovvero il lasso di tempo necessario ad un certo Stato per accumulare una sufficiente quantità (normalmente 27 Kg) materiale fissile come U-235, per fabbricare un ordigno atomico. Pre-JCPOA questo lasso di tempo per l’Iran era stimato essere meno di un anno, circa 6 mesi; a novembre 2020, in seguito alle violazioni del JCPOA Reuters lo ha stimato a circa 1 anno; a febbraio 2021, i Governo israeliano e statunitense lo hanno ristimato in 6 mesi. Tuttavia, un conto è “l’accumulo del materiale grezzo” un altro la sua cosiddetta weaponization, ovvero l’inserimento all’interno di un ordigno militare, ad esempio una bomba. Lo sviluppo e la fabbricazione delle tecnologie necessarie al contenimento ed al trasporto richiederebbero infatti ad oggi all’Iran, circa 2-3 anni. (1- continua)
Ma perché il breakout time iraniano è tornato a scendere e perché l’AIEA è dovuta intervenire per salvare, almeno temporaneamente il JCPOA? Le cause della crisi tra USA e Iran nella seconda parte dell’approfondimento domenica 28 febbbraio
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