Guerra: la grande assente di Glasgow

Tanti i temi in ballo alla COP26 per il clima. Ma si continuano a ignorare i conflitti e il business sporco che inquina e distrugge

Di Lucia Frigo, da Londra (Regno Unito)

Con il termine della Conferenza delle Parti o COP26, tenutasi a Glasgow (Scozia) nelle due settimane scorse, il mondo ha rivolto l’attenzione alla crisi climatica che incombe sul nostro futuro collettivo. I leader di tutto il Pianeta – o i loro portavoce, in casi come Cina e Russia, i cui capi di Stato non hanno presenziato al forum – hanno discusso un nuovo accordo che sostituisca quello di Parigi del 2015 nel dettare agli Stati le nuove regole per la tutela del Pianeta. Tanti i temi in ballo, ma un grande assente riempie il silenzio: la guerra, che continua a inquinare.

Foto: Flickr UNFCCC

Il summit e l’accordo

Le due settimane di discussione, ospitata dal governo britannico di Boris Johnson, erano all’insegna di uno slogan tanto accattivante quanto superficiale: “soldi, auto, carbone, alberi” (cash, cars, coal and trees) si sono ripetuti sull’agenda globale per scandire le priorità del summit. Primo, la promessa di cento miliardi di dollari all’anno da parte dei Paesi sviluppati, dedicati alla transizione verde dei Paesi in via di sviluppo. L’idea è semplice: chi ha avuto per decenni la possibilità di arricchirsi con i combustibili fossili dovrà aiutare quegli Stati ai quali ora sta chiedendo di non fare lo stesso, ma di investire in energie “verdi”. Secondo: le automobili, che dovranno diventare tutte elettriche nei prossimi decenni se vogliamo ridurre le emissioni di Co2 delle nostre comunità. Questo passa attraverso le grandi industrie, che si impegnano a spostare l’ingegneria automobilistica verso auto più “pulite” entro il 2040. Terzo: il carbone, e tutti i combustibili fossili, dai quali l’economia globale dovrà emanciparsi per vincere la lotta contro il riscaldamento climatico. Le alternative esistono e funzionano: dal solare all’idrico, all’eolico, fino al nucleare. I governi del Mondo dovranno impegnarsi concretamente, con investimenti nella ricerca e nella transizione, per spezzare la dipendenza del Mondo da petrolio, carbone e gas naturali. Infine, gli alberi: quelli che ancora stiamo abbattendo ad una velocità record nelle foreste del Pianeta (dall’Amazzonia alla Nuova Guinea, come vi abbiamo raccontato qui) e che i leaders del Mondo dovranno invece impegnarsi a proteggere e ripiantare. I polmoni del mondo, e la biodiversità che ne consegue, sono inequivocabilmente responsabilità dei nostri governi ed è loro il mandato di ripristinarli.

Quattro elementi, dunque, nei quali impegnarsi per raggiungere quello che è l’obiettivo del Pianeta: mantenere il riscaldamento globale sotto la soglia – critica – dell’ 1.5° all’anno. Gli scienziati sono stati cristallini nell’ultimatum: se la temperatura del Pianeta continuerà ad aumentare oltre questa soglia, siamo tutti spacciati. Dalle emergenze climatiche che continuiamo a testimoniare (come le alluvioni e gli incendi dell’estate 2021) allo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento del livello del mare, quel grado e mezzo celsius rappresentano la nostra ultima speranza. Lo hanno ripetuto ospiti illustri ed attivisti (tra cui, immancabile e catalizzante, Greta Thunberg) per tutta la durata del summit, finchè non si è arrivati a Sabato 12 Novembre, quando la conferenza si è chiusa e il nuovo patto sull’ambiente e sul clima è stato presentato al pubblico.

L’accordo fa già parlare di sé. La vastissima partecipazione dalle Nazioni di tutto il Mondo è stata allo stesso tempo una vittoria, che ha dimostrato la serietà di tutti nel proteggere il Pianeta, e un limite. “Non possiamo forzare Stati sovrani a fare ciò che non hanno intenzione di fare”, ha detto il padrone di casa Boris Johnson a mo di giustificazione. Cosa prevede dunque il patto che vincola ora i nostri governi? L’obiettivo dell’1.5° non è stato raggiunto, com’era prevedibile. Mentre i governi si sono impegnati a non superare i 2° all’anno, la soglia critica dell’ 1.5° “rimane sul tavolo per il summit del 2022”. Allo stesso modo, la dipendenza globale dai combustibili fossili non smetterà: mentre il testo originale imponeva ai governi di escludere l’uso di tali fonti di energia, il testo approvato dai negoziatori richiede ora ai Paesi Membri di “ridurre” l’uso di questi combustibili. Approvato il sostegno economico per gli Stati in via di sviluppo, con un target di 500 miliardi entro il 2025.

Le emissioni militari: grande assente dai dibattiti ufficiali

Le critiche nei confronti dei leader globali non sono mancate: il continuo richiamo all’ambientalismo “quotidiano” di ogni individuo nel suo piccolo è inutile, se i governanti volano da e verso Glasgow con Jet privati le cui emissioni sono pari a quelle che 1600 persone produrrebbero nell’arco di un anno.

Ma soprattutto, l’ipocrisia dei governi occidentali e globali è stata sottolineata riguardo al grande assente nella conversazione: le emissioni causate dalle missioni militari, che non accennano a diminuire. L’inquinamento causato dalle 34 guerre attive oggi nel mondo, e da tutte quelle che le hanno precedute, è massiccio e intuibile a tutti. Eppure gli Stati che hanno partecipato alla Conferenza delle Parti – e che hanno il dovere di riportare i dati sull’inquinamento causato dalle loro missioni militari all’ufficio delle Nazioni Unite per il Cambiamento Climatico – presentano riguardo alle proprie azioni perlopiù dati confusi, al ribasso, e molto lontani dalla realtà.
È questo il risultato della ricerca dell’ Osservatorio sui Conflitti e l’Ambiente (Conflicts and Environment Observatory). L’ONG britannica, in collaborazione con le Università di Lancaster e Durham, ha creato il progetto Military Emissions Gap, che mappa e analizza proprio il divario tra i dati riportati all’ONU e quelli effettivi dell’inquinamento causato dalle guerre.

Duncan Kidd, Unsplash

Le emissioni causate dai conflitti sono infinitamente più di quelle che pensiamo, ha spiegato lo scienziato britannico Eoghan Darbyshire nella conferenza di presentazione del progetto tenutasi durante COP26. Non si tratta solo dello spostamento – già di per sé mastodontico – di militari, mezzi di trasporto, armi ed equipaggiamento. Il loro sostentamento (dai rifornimenti di cibo e carburanti, fino al riscaldamento dei loro stabilimenti) è solo la prima aggiunta ad una lista che continua a crescere. Basti pensare alle emissioni causate dalle esplosioni, dalle armi incendiarie (che spesso distruggono enormi aree di vegetazione perchè diventano in breve tempo fuori controllo), e dalla strategia militare di distruzione dei raccolti per forzare le popolazioni locali alla resa. Oppure, si pensi alla pratica del gas flaring, l’incendio dei combustibili fossili, con il quale gli eserciti si assicurano che le risorse siano inutilizzabili affinché gruppi terroristici e opponenti non possano beneficiare economicamente dalla loro vendita. Per non parlare del costo ambientale delle missioni umanitarie, costosissime dal punto di vista di carburanti e risorse, soprattutto quando per aiutare le vittime bisogna fare i conti con la distruzione di infrastrutture come strade ed ospedali.

Tutte emissioni che si sommano, ovviamente, ai costi e alle emissioni legate alla ricostruzione di Paesi e territori dilaniati dal conflitto. Insomma: se la spesa militare continua ad essere altissima e redditizia in occidente (il 3.75% del prodotto interno lordo americano è legato all’acquisto di materiale bellico, per oltre 20 mila miliardi di dollari), la spesa ambientale è devastante. Nei report delle Nazioni Unite, i governi riescono a cavarsela riportando una piccolissima parte delle proprie emissioni belliche. Nel diritto internazionale, non c’è traccia di una loro responsabilità per il costo ambientale di tutte le conseguenze della guerra.

Nella società civile, gli attivisti continuano a protestare affinché il budget allocato alla spesa militare sia rivolto invece al raggiungere quella soglia di 1.5° celsius che ci salverà tutti. Ma, per ora, negli accordi dei governi del Mondo – e nella Conferenza delle Parti – di tutto questo non c’è traccia.

 

Foto di copertina: 1990. Un soldato iraniano osserva la nube provocata dall’incendio delle raffinerie petrolifere ad opera degli eserciti nemici durante il conflitto Iraq-Iran. Foto: Henri Bureau/Sygma/Corbis. 

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