di Alessandro De Pascale
È un vero e proprio arsenale da guerra, quello che la polizia kosovara mostra ai giornalisti. Secondo le autorità locali è stato rinvenuto grazie alle perquisizioni a tappeto in abitazioni e veicoli, che sono state condotte attorno al villaggio a maggioranza serba di Banjska. Siamo a Zvečan (465 abitanti, secondo l’ultimo censimento condotto in queste enclave nel 2011), nel Kosovo settentrionale, piccolo Paese dei Balcani che ha ha proclamato la propria indipendenza dalla Serbia nel 2008, con capitale Pristina (distante 45 chilometri e appena un’ora di auto). Nel piccolo monastero ortodosso di Banjska, domenica 24 settembre si era barricato un commando armato. Il quale, poco prima, aveva bloccato un ponte stradale di accesso a Banjska, mettendo di traverso due grandi camion agricoli. All’intervento della polizia ne era nato uno scontro a fuoco nel quale era morto un poliziotto, mentre un secondo è rimasto ferito.
Nel tentativo di catturare il commando, secondo le autorità formato da 30 persone, il monastero era stato circondato dalle forze di sicurezza kosovare e si era sparato per l’intera giornata di domenica. Quando a sera il blitz è stato dichiarato concluso, si contavano quattro terroristi morti, sei feriti, altrettanti catturati, mentre dieci sarebbero riusciti a fuggire. Per il Governo kosovaro, questi ultimi avrebbero attraversato il confine. Secondo il Ministro dell’Interno kosovaro, Xhelal Svecla, sei di loro sono stati ricoverati in un ospedale della città di Novi Pazar, nel sud della Serbia. “Chiediamo a Belgrado di consegnare questi uomini alle autorità del Kosovo il più presto possibile, affinché si faccia giustizia per i loro atti terroristici”, ha detto ai giornalisti Svecla. La Serbia, dal canto suo, continua a negare qualsiasi coinvolgimento, affermando si tratti di serbi-kosovari.
Tornando alle armi da guerra sequestrate, allineate in un piazzale per le foto probatorie di rito, ci sono lanciarazzi anticarro, mitragliatrici, fucili di precisione e d’assalto dell’ex esercito jugoslavo, mortai, bombe a mano, mine terrestri e droni. In tal numero da riempire quasi a perdita d’occhio, l’intero spazio all’aperto dove sono state allineate per tipologia. Ai giornalisti sono stati inoltre mostrati 20 Suv e un camion blindato, sempre secondo le autorità, utilizzati dal commando terroristico per compiere la loro azione. Su tre di questi veicoli era inoltre dipinto il logo della KFOR (Kosovo Force), la missione internazionale della NATO di mantenimento della pace, attiva dall’alba del 1999.
L’Alleanza Atlantica, al termine di una vasta campagna di bombardamenti aerei durata tre mesi, quell’anno era intervenuta al fianco degli albanesi-kosovari dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK), considerata fino al giorno prima dalle Nazioni Unite organizzazione terroristica. Su mandato ONU, la NATO scendeva così in campo nell’ultima guerra indipendentista dei Balcani (iniziata nel febbraio 1998), schierando e mantenendo da allora le proprie truppe in questa piccola nuova nazione nata dal nulla, dalle ceneri della ex Jugoslavia. In Kosovo da 23 anni, la KFOR è attualmente la missione più duratura della storia dell’Alleanza Atlantica e tuttora conta sul terreno 3.800 militari (inizialmente contava ben 50mila effettivi). Ritenendo la situazione in miglioramento, per sua stessa ammissione la NATO ha da tempo optato per “contingenti più piccoli e flessibili”. Una scelta ora rimessa in discussione.
Dal giorno dell’azione del commando terrorista, l’intera area nord del Kosovo (confine con la Serbia compreso) è stata militarizzata dalla polizia e dalle guardie di frontiera kosovare. Imponenti posti di blocco fermavano e controllavano ogni veicolo in ingresso o in uscita, che doveva passare in mezzo alle croci di Sant’Andrea e fermarsi alla barriera chiodata. Una circostanza molto rara, poiché nelle zone abitate dalla minoranza serba (circa 120mila persone di confessione ortodossa, in un Paese a maggioranza albanese che conta 1,8 milioni di abitanti, in maggioranza musulmani), le forze di sicurezza kosovare sono mal viste e quindi non presidiano quasi mai il territorio. Tale compito è normalmente in capo alle truppe della NATO (del contingente italiano fanno parte anche i carabinieri, con compiti di polizia militare). In questi comuni a maggioranza serba, riuniti dal 2008 nell’Assemblea Comunitaria del Kosovo e Metohija, le ultime elezioni amministrative di maggio sono state disertate, mentre cittadini armati spesso costituiscono posti di blocco e barricate proprio per impedire l’accesso alla polizia e ai doganieri del Governo centrale di Pristina. Anche la vicina frontiera con la Serbia è così molto più che porosa.
L’episodio avvenuto domenica è “tra i peggiori avvenuti dall’indipendenza” proclamata nel 2008, ritiene una nostra fonte che ci chiede di restare anonima in quanto lavora tuttora per la missione europea civile EULEX, la più grande mai lanciata nell’ambito della Politica di Sicurezza e Difesa Comune (PSDC) dell’Unione Europea, attiva in Kosovo da quell’anno, con l’obiettivo di sostenere le giovani istituzioni del Paese. “Questo scontro avviene dopo mesi di crescenti tensioni, ma soprattutto nel pieno di uno stallo dei colloqui tra il Governo di Pristina e quello della Serbia, che stanno promuovendo dal 2012 USA ed Unione Europea”, continua il funzionario dell’EULEX. L’indipendenza del Kosovo è stata finora riconosciuta da circa 100 nazioni (tra le quali Stati Uniti e la maggior parte dei Paesi occidentali), ma è stata sempre rigettata dalla Serbia (come anche da Russia, Cina e cinque membri dell’UE), impedendo così a Pristina di ottenere un seggio alle Nazioni Unite. Le aree abitate dalla minoranza serba sono di fatto delle enclave della Serbia, dove le scritte sono in cirillico, la moneta utilizzata è il dinaro (al posto dell’euro, valuta nazionale nonostante il Kosovo non faccia ovviamente parte dell’Eurozona), i veicoli circolano senza targa in segno di protesta per non adoperare quella kosovara che riporta la bandiera di un Paese che non riconoscono.
Sia l’Unione Europea, sia la NATO, osservano con attenzione e preoccupazione l’evolversi della situazione. Con l’Alleanza Atlantica che potrebbe aumentare le proprie truppe sul terreno. “Ogni scintilla potrebbe far riesplodere un conflitto tra le due parti”, afferma preoccupato il funzionario dell’EULEX. Lunedì, mentre in Kosovo era stata dichiarata una giornata di lutto nazionale, i leader dell’UE (ai quali si è aggiunto il vicesegretario di Stato USA per gli Affari Europei, Gabriel Escobar) si sono incontrati a Bruxelles per valutare i prossimi passi, nel tentativo di cercare di calmare le tensioni. “Gli sforzi per normalizzare le relazioni tra i due Paesi attraverso il dialogo a Bruxelles sono finiti da tempo su un binario morto”, continua la nostra fonte. “Sia Belgrado che Pristina mirano ad entrare nell’Unione Europea, ma per farlo l’UE chiede la normalizzazione delle loro relazioni. Il mese scorso il Presidente serbo Aleksandar Vucic e il Premier del Kosovo Albin Kurti, entrambi nazionalisti, hanno concordato la formulazione di un Piano europeo in 11 punti. Ma nonostante si tratti di un testo molto meno ambizioso di quello proposto inizialmente dall’UE, il Kosovo ha chiesto maggiore flessibilità nell’attuazione, mentre la Serbia si è rifiutata persino di firmarlo”, spiega ancora il funzionario dell’EULEX.
Il piano dell’Unione Europea prevede che i due Paesi mantengano relazioni di buon vicinato e riconoscano reciprocamente documenti ufficiali e simboli nazionali, lasciando ugualmente Pristina fuori dall’ONU (possibilità che verrebbe comunque sbarrata dal veto che la Russia ha già promesso di porre nel caso in Consiglio di Sicurezza), come anche da altre organizzazioni internazionali. Ma se il Primo Ministro del Kosovo Kurti dopo i fatti di domenica ha accusato senza mezzi termini la Serbia di finanziare e inviare uomini armati nel suo Paese, il Presidente serbo Vucic nel respingere tale accusa al mittente gli ha risposto: “Puoi ucciderci tutti, ma la Serbia non riconoscerà mai l’indipendenza del Kosovo, quella mostruosa creazione che avete realizzato bombardando il nostro Paese”, riferendosi all’intervento della NATO che nel 1999 portò alla nascita di questo piccolo Paese balcanico grande appena 10.887 km² (quanto l’Abruzzo), con poche industrie e dove la criminalità e la corruzione dilagano.
Per saperne di più, leggi la nostra scheda conflitto sul Kosovo
Nella foto di copertina, il contingente svedese della missione NATO-KFOR a Camp Victoria, Pristina (Kosovo) © Jeppe Gustafsson/Shutterstock.com