Quando è giusto essere fuorilegge

"Essere fuori dalla legge non è sempre sbagliato, perché il problema è che le leggi non rappresentano sempre la giustizia o il diritto". Il caso Sea Watch lo dimostra. E sui decreti sicurezza forse ci vorrebbe un referendum. L'editoriale di atlanteguerre

di Raffaele Crocco

La cosa evidente è che il piccolo Matteo Salvini leggeva Robin Hood facendo il tifo per lo Sceriffo di Nottingham. Lui di “fuorilegge” – cioè di individui fuori dalla legge – che aiutano poveri e disperati proprio non vuole sentir parlare. Sono criminali, punto. Lo aveva dimostrato con Mimmo Lucano, lo ha confermato con la Sea Watch. Ora: fuori-legge erano, ad esempio, i partigiani italiani che non obbedivano alle leggi fasciste della Repubblica Sociale. Fuori-legge era Gino Bartali che, con la sua bicicletta, fra il 1943 e il 1944, aiutava chi voleva salvare centinaia di ebrei da morte certa. Fuori-legge erano milioni di russi che fra il 1938 e il 1954, anche dopo a dire il vero, osavano pensare o dire che il governo Sovietico era una lugubre e sanguinaria dittatura. Fuori-legge era all’alba del Novecento Emiliano Zapata, che voleva la riforma agraria in Messico per salvare dalla fame milioni di contadini.

Essere fuori-legge non è sempre sbagliato, perché il problema è che le leggi non rappresentano sempre la giustizia o il diritto. Spesso la legge legittima violenza, razzismo, voglia di potere. Quello che ha fatto Carola Rackete, la capitana della Sea Watch, è semplice: ha infranto una legge, questo non si discute. In discussione dovrebbero essere messe le ragioni per cui l’ha fatto e i motivi per cui quella legge, in questo caso il decreto Salvini, esiste.

Sul primo aspetto: sappiamo con certezza che lo ha fatto per salvare una quarantina di vite umane, cioè i naufraghi che aveva raccolto con la Sea Watch in mare circa 15 giorni prima. La legge firmata dal ministro degli Interni dice che non poteva entrare nei porti italiani, chiusi. Ora, se proprio vogliamo essere sinceri, dovremmo ricordarci che le leggi internazionali dicono che i naufraghi vanno accolti e che i porti non possono essere chiusi, se non in caso di guerra. Questa cosa – sempre ad esempio – mette fuorilegge l’Italia o quanto meno chi dal governo ordina di chiudere tutto. Le norme internazionali dicono che “eventuali intese operative tra le autorità di Stati diversi, o la paventata “chiusura” dei porti italiani, non possono consentire deroghe al principio di non respingimento in Paesi non sicuri affermato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra”.

E’ vero: la capitana ha forzato la mano, mettendo in pericolo un equipaggio della Guardia di Finanza. Di questo dovrà comunque rispondere, ma la sostanza non cambia, non giochiamo con le parole. E’ entrata in porto, perché aveva gente da salvare a dispetto degli ordini ricevuti dai finanziari. Facendolo, ha messo in pericolo l’equipaggio della motovedetta, ma non l’ha ferito, non l’ha danneggiato. Quindi, ha commesso un reato, pagherà se deve pagare, ma è bizzarro che il procuratore della Repubblica chiamato ad interrogarla e a formulare le eventuali accuse, ancora prima dell’interrogatorio di garanzia tuoni sulla “gravità di quanto successo” ed esprima giudizi. Dovrebbe avere il buon gusto – e il rispetto di ruoli e regole – di tacere. Sempre.

Sulla seconda parte – cioè sulle ragioni d’esistenza del decreto Salvini – la cosa diventa più interessante e preoccupante. Il ministro di Ogni Dove dice che il decreto nasce per proteggere i confini del Paese, gli italiani, per evitare le invasioni e per costringere l’Europa – che lui abbiamo scoperto certamente non frequenta – a scendere a patti sull’immigrazione. Alle ultime politiche il 17 per cento degli italiani gli ha dato ragione su questo. Non vorrei sembrare quello precisino ad ogni costo: dei risultati nelle elezioni successive – amministrative ed europee – e dei sondaggi non mi interessa, sono aria fritta, flatulenze nella tempesta. Salvini ha oggi il 17 per cento dei parlamentari a Roma, cioè una minoranza. Punto. A fargli passare i suoi decreti di polizia sono il 34 per cento dei parlamentari targati Cinque Stelle. Ecco: qui nessuno di noi ha certezze. Sappiamo che Di Maio – il boss dei Cinque Stelle – dà ragione a Salvini e lo sostiene, restando così anche lui vicepremier. Nessuno è certo però che il 34 per cento degli italiani che ha votato per loro sia d’accordo con quello che dice Salvini.

Un referendum sul decreto sicurezza

Ora, se non avete capito, traduco. Siamo governati da un uomo deciso, che ha solo il 17 per cento del Parlamento sotto controllo, ma può contare sul 34 per cento dei Parlamentari – la maggioranza – eletti da cittadini che hanno votato un programma diverso, differente, che non c’entrava nulla. In democrazia non dovrebbe funzionare così. E’ un dubbio che va risolto. Perché, quindi, non fare un referendum? Perché non chiediamo agli italiani cosa davvero ne pensano di quella legge? L’Articolo 75 della nostra Costituzione dice “E` indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”.

La sicurezza, quindi, è materia ammessa. Si può fare. Si può andare a capire se gli italiani sono davvero come quella massa di balordi che rispetto alla capitana arrestata, le augurano di subire stupri e violenze. In pratica, attraverso i social questi animali incitano altri animali a commettere reati, perché lo stupro è un reato. Strano che il Ministro dell’Ordine Assoluto, attento ad ogni passaggio mediatico e social, non dica mai che queste bestie sono certamente fuorilegge.

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