Il mio 8 settembre 1943

Letture. In occasione di quella data, che ieri ricordava il proclama di armistizio di Badoglio, pubblichiamo il ricordo di Tina Longo, che era allora una bambina che visse quel tormentato periodo storico

In occasione della data che ieri ricordava il proclama di armistizio di Badoglio del 1943, pubblichiamo questo ricordo di Tina Longo di madre slovena e padre italiano, che ha vissuto da bambina la Seconda Guerra Mondiale, l’occupazione fascista e nazista, la lotta partigiana, in vari luoghi dell’ex Jugoslavia.

di Tina Longo*

È pomeriggio, papà torna dal lavoro particolarmente eccitato. È venuto a conoscenza che si è fermato un grosso convoglio di soldati italiani che dalla Grecia andavano in Italia, in licenza: è il sette settembre. Niente di nuovo per noi. Ogni volta che nella città arrivava un italiano mio padre trovava il modo di incontrarlo: lo ospitava, si esprimeva nel suo idioma, dava a noi l’occasione di confrontarci con l’italiano. Il convoglio, arrivato nella notte, già nella prima mattina, dalla stazione principale, veniva spostato su un binario morto. Episodio strano, ma nessuna preoccupazione in vista.

Pomeriggio dell’8. Papà e io andiamo in visita ai paesani. Arrivati ci vediamo circondati da tanti. C’è l’ansiosa attesa per la partenza e la gioiosa curiosità dei più giovani con la voglia di andare in città. Papà chiede di salutare il comandante del convoglio, accennare alla possibilità della passeggiata, chiedere il permesso. Ci siamo trovati davanti ad una persona affabile e visibilmente preoccupata. Non riusciva a spiegarsi perché erano dislocati su un binario morto quando la loro posizione richiedeva la precedenza assoluta. Mentre eravamo in sua compagnia non mi è sfuggito come il telegrafista è rimasto occupato nella costante ed inutile ricerca di connessione. Lo abbiamo salutato, fuori ci ritroviamo circondati dai militari pronti ed ansiosi. Hanno accettato la passeggiata solo i più giovani, i più anziani erano protesi verso la meta, verso casa, verso l’abbraccio dei cari.                                  In città prima una passeggiata, poi al cinema. Quella sera proiettavano Rigoletto, in italiano.

Ero una bambina, mi sentivo importante mentre i nostri conoscenti e le persone sconosciute ci guardavano – le calze di seta – era una costante richiesta che le giovani, forti della presenza mia e di mio padre, facevano. Si formulavano improbabili appuntamenti che sarebbero stati onorati quando i soldati sarebbero tornati sul fronte, in Grecia. Al cinema ricordo come incubo il film perché il parlare era per me troppo veloce, leggere le didascalie faticoso.

Siamo usciti che era già ora del coprifuoco, oltre le 22. Non ci turbava, ci sentivamo sicuri, eravamo pur con i soldati italiani, quindi ben protetti. Sulla probabilità di incontrare la pattuglia tedesca si scherzava, non è accaduto. I militari erano sicuri che l’indomani sarebbero ripartiti, papà era al lavoro ma io e la mia sorellina potevamo e dovevamo andare a salutare il comandante e gli altri soldati se fossero stati ancora fermi. La mattina, verso le 10, mamma ci lascia andare. Il binario su cui stanziavano non è lontano, subito dopo il cimitero ortodosso: il luogo dove avvenivano le esecuzioni notturne.

Da lontano vedo il binario vuoto e questo poteva essere un segno positivo, segno che la partenza è avvenuta durante la notte. Ma due soldati tedeschi, armati di tutto punto, che marciano lungo il binario dava un messaggio di altra portata. Intuisco che per noi due poteva essere pericoloso mostrarci, quindi do uno strattone a mia sorella e torniamo a casa. Nessuno mi ha dato alcuna spiegazione, l’8 settembre con il significato intrinseco era lontano da ciò che io avrei potuto capire. Quando divenne un accadimento preciso e chiaro sono nate molte domande, tutte senza risposta: “Era conosciuta la posizione geografica di quel convoglio in quella notte funesta? Quale sorte è toccata agli occupanti? Sono annoverati tra gli scomparsi o inesistenti? Come si fa una ricerca?”

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* Nata nel 1933 a Sremska Mitrovica (l’odierna Serbia), frequenta la scuola in diversi idiomi: prima elementare (1940-1941), lingua serba, scrittura in cirillico; seconda, terza e quarta (1941-1944) in croato con caratteri latini. A settembre del 1944 “l’edificio scolastico viene minato assieme alla basilica degli ebrei”. Tutto il percorso scolastico, durante la guerra, “è impostato all’adorazione del presidente, come accade nelle dittature”, nel suo caso “Poglavnik” Ante Pavelic. Nel novembre del 1944, con la madre e la sorella (il padre è al lavoro in Germania), si trasferisce in Slovenia “nella terra dei Partigiani”, presso la famiglia della madre. Maggio/giugno 1945: “La guerra è finita, le scuole riaprono per due mesi, classi non ben definite ma la ricerca della normalità inizia da lì”, dalle medie (lingua slovena). “È il momento di Tito dittatore, sono esaltate le brigate partigiane, come lingua straniera si studia il russo ed è già storia la gloria dell’Armata Sovietica”. Quando per gli italiani l’aria si fa pesante, nonostante la presenza nella sua famiglia di partigiani (tra le quali una capo-brigata e un’altra finita in un campo di concentramento nazista), a febbraio del 1947 sono costretti a lasciare la Jugoslavia (zona B) da profughi giuliani in Italia. Approdano a Foggia (presso la famiglia del padre), dove si diploma al magistrale nel 1953. Insegnerà per 39 anni alle elementari, fino alla pensione raggiunta nel 1996, iniziando a scrivere a macchia di leopardo i ricordi della guerra.

*In copertina foto di Grisha Bruev su Shutterstock

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