di Elia Gerola
Il 16 agosto il Ministro della Difesa della Repubblica Indiana, Rajnath Singh, in visita presso uno dei luoghi simbolo del nucleare indiano, il poligono di Pokhran-II, ha dichiarato e poi twittato: “L’India ha aderito (fino ad ora) in maniera ferrea alla dottrina (del No First Use). Quello che accadrà in futuro dipenderà dalle circostanze”. Insomma, il nucleare torna al centro dell’annosa disputa territoriale indo-pakistana alla base del conflitto a bassa intensità della regione del Kashmir. Una cosa è certa, la minaccia di un’escalation militare in caso di inasprimento dei metodi di opposizione convenzionali, rimane dietro l’angolo, e la possibilità che l’India impieghi l’atomica per prima, fino ad ora sempre negata da politici ed ufficiali militari, sembra vacillare.
Cosa fa pensare che l’India stia intraprendendo un vero cambio di paradigma strategico in tal senso? Le vicende poco concilianti, che hanno caratterizzato i primi 8 mesi di questo 2019, marcato da una riaccesa contrapposizione tra Nuova Delhi e Islamabad. A febbraio alcuni paramilitari indiani di stanza in Kashmir sono morti a causa dell’esplosione di un autobomba e il governo indiano, accusando terroristi basati in Pakistan, aveva “schiaffeggiato” Islamabad violandone lo spazio aereo. Per la prima volta da decenni, dei caccia indiani hanno bombardato direttamente una porzione di territorio pachistano, occupata da un presunto campo di addestramento terroristico. Poi in primavera, solo dichiarazioni reciprochepoco pacifiche, ma non nuove per il clima di strisciante tensione tra le due capitali. Dopo lo svolgimento delle lunghe elezioni indiane, fresco di rinnovo elettorale, il governo del nazionalista e conservatore Narendra Modi, primo ministro per conto del Bharatiya Janata Party (Partito del Popolo), con decreto presidenziale ha eliminato lo status speciale del Kashmir, garantito dalla stessa costituzione indiana.
La storia delle capacità e delle relazioni nucleari tra i due Stati lungamente rivali risale al 1974, anno del primo test nucleare indiano, definito “pacifico” dal governo dell’epoca, seguito al precedente rifiuto di allinearsi al resto del mondo firmando il Trattato di Non Proliferazione Nucleare nel 1968 e alla conseguentemente deliberata scelta di percorrere la strada della proliferazione nucleare orizzontale, in una logica di Tit for Tat, ovvero di specularità nelle scelte attuate in questo campo di difesa militare. Nel 1998 infatti, entrambi gli Stati ufficializzarono la raggiunta capacità di impiegare armi con capacità atomica e di aver quindi raggiunto il tanto agognato equilibrio nucleare, atto alla reciproca deterrenza, ovvero alla minaccia di rispondere con la stessa “moneta” in caso di attacco (vedi il nostro approfondimento intitolato “India-Pakistan: all’erta stiam”). Ma qual è oggi l’entità della capacità nucleare militare dei due Stati? Quali sono le dottrine militari seguite dalle élite politico-militari rivali per regolare il possibile impiego dell’atomica? Le relazioni atomiche reciproche stanno veramente mutando?
Arsenali e vettori di lancio.
Rispettivamente 130/140 l’India e 140/150 il Pakistan: sarebbero questi i numeri delle testate nucleari attualmente in possesso dei due Stati, almeno secondo quanto riportato dal SIPRI Year Book 2018. Tuttavia, come sottolineato da vari analisti, la quantità non è un fattore sufficiente in questi casi, anche la qualità degli arsenali, ovvero il tipo dei vettori di lancio disponibili e le regole che ci si è dati per ricorrere al nucleare devono essere considerate al fine di definire propriamente il reale rischio di escalation militare.
Secondo il Nuclear Notebook della Federazione degli Scienziati Americani (FAS), al 2018 il Pakistan avrebbe raggiunto la triade nucleare della capacità di lancio di attacchi atomici da aria, terra e mare. Inoltre l’attuale arsenale, grazie alle abilità tecniche e di reperimento dei materiali sviluppate dal complesso militare-industriale pachistano, entro il 2025 Islamabad potrebbe raggiungere le 250 testate nucleari.
L’aviazione militare pachistana è dotata di aeromobili: F-16 e Mirage, capaci di caricare e poi sganciare, anche dopo 2100 chilometri di viaggio aereo, ordigni nucleari. Nove sono invece i differenti tipi di missili potenzialmente armabili con l’atomica a disposizione delle forze armate pachistane. Ecco i nomi di tre classi di missili tristemente famosi: Shaheen-3, Ababeel e NASR. Il primo è la versione a lungo raggio, avente gittata di ben 2700 km del missile balistico terra-terra di gettata medio-corta (1500 km) Shaheen-2, ri-testato all’indomani della rielezione di Modi in India questa primavera dal governo pachistano come segnale di avvertimento. Il secondo è invece un missile balistico che una volta lanciato, giunto ad un preciso punto di altitudine e lunghezza della propria portata rilascia differenti testate nucleari, andando a colpire più bersagli simultaneamente. Tali vettori terra-terra, sono particolarmente odiosi e insidiosi, e appartengono alla classe dei Multiple Independently targetable Reentry Vehicles: MIRV. Il possesso di una tale capacità non è certo; si sa però che Islamabad ci sta lavorando da un po’.
Cosa certa ed anche fieramente annunciata è invece il rafforzamento del proprio arsenale nucleare tattico, ovvero impiegabile direttamente sul campo di battaglia. Ne sono un emblema i missili NASR, a cortissimo raggio, 70 km appena, armabili con testate militari miniaturizzate e così impiegabili
come deterrente in caso di attacco militare convenzionale. Sembrerebbero entrati a far parte dell’arsenale nucleare pachistano nel 2013, dopo essere stati sviluppati e testati dal National Development Complex del Pakistan.
Infine il mare, infatti sia nel gennaio 2017 che nel marzo 2018, il Pakistan ha testato il missile avente gittata di 450 km Babur-3, da piattaforme mobili e sottomarine collocate nell’Oceano Indiano. La previsione è però quella di armare i sottomarini a motore diesel ed elettrico Agosta. Il fine, chiaramente sottolineato dal governo di Islamabad sarebbe quello di assicurarsi la capacità di un cosiddetto Second Strike, la locuzione inglese che descrive la capacità di risposta nucleare anche nel caso in cui tutti i vettori aerei e terresti venissero messi fuori uso, nella fattispecie dall’India ai danni del Pakistan.
Il nucleare indiano
D’altra parte invece, l’India possiederebbe, come riportato sempre dalla FAS, 9 differenti tipi di vettori nucleari, che a sua volta le hanno permesso di raggiungere il controllo della triade nucleare terra-aria-acqua. Due sono attualmente i bombardieri disponibili: Mirage e Jaguar, tuttavia nuovi caccia da combattimento Dassault Rafale, sono stati commissionati dall’India alla Francia e dovrebbero essere stati consegnati a partire dal 2016. Sempre due sono invece le classi di missili terra-terra sviluppate: la serie Agni con le sue 5 versioni (la seconda nell’immagine di copertina) aventi diverse capacità comprese tra i 700 e 5,200 km e la classe Prithvi-II di corto raggio (350 km).
Il programma è però in fase di costante modernizzazione, rinnovo ed aggiornamento, non sempre trasparenti. Altro settore fortemente potenziato e sviluppato da Nuova Delhi è anche quello della capacità di lancio dal mare. Tuttavia, i missili Danush attualmente schierati su vascelli, hanno una limitata gittata di 400 km che quindi rende un eventuale attacco e di conseguenza l’effetto deterrente da essi generabili alquanto scarsi, per non dire nulli. Il governo indiano ha però avviato lo sviluppo dei cosiddetti sottomarini (SSBN) della classe Arihant, dotati di lanciamissili balistici. Essi, potendosi nascondere nelle profondità dell’Oceano Indiano e risultando molto più difficili da individuare dal potenziale nemico pakistano o cinese garantirebbero la capacità di Second Strike, avrebbero inoltre il pregio di poter essere armati con missili K-15 e K-4, aventi una portata compresa tra i 700 e i 3.500 km.
Le dottrine nucleari.
Come ben spiegato dall’analista indiana Manpreet Sethi, India e Pakistan hanno dal punto di vista strategico necessità e dottrine nucleari differenti. Da una parte Islamabad ha più volte confermato che lo sviluppo di armi nucleari tattiche, impiegabili anche sul campo di battaglia convenzionale è atto a bilanciare la superiorità convenzionale indiana. Infatti, in caso di guerra combattuta senza l’ausilio di armamenti di distruzione di massa, il conflitto risulterebbe asimmetrico e fortemente in favore di Nuova Delhi. Tuttavia, la minaccia di impiegare anche senza diretto attacco nucleare indiano ma anche in seguito ad un’importante invasione convenzionale, le proprie armi atomiche, almeno in linea teorica non fa che ribilanciare le sorti del conflitto, rendendolo, almeno nell’ottica degli analisti e strateghi pachistani molto più improbabile. Per il Pakistan, il possesso di un adeguata capacità nucleare militare sarebbe quindi alimentata da un’esigenza esistenziale, quella di garantire la sopravvivenza e l’integrità territoriale pachistana qualora l’India decidesse di attaccarla.
Inoltre, come più volte dimostrato da esponenti di rilievo della politica e delle forze militari pakistane, Islamabad è cosciente della propria superiorità nell’ambito delle armi nucleari tattiche di corto raggio e miniaturizzate, sviluppate proprio per fare si che Nuova Delhi desista da ogni sorta di attacco convenzionale. Come detto prima, Babur-3 è invece finalizzato ad assicurarsi la capacità di risposta secondaria, nell’eventualità che sia l’India a lanciare per prima un attacco militare nucleare efficace. Secondo alcuni analisti, un tale scenario potrebbe verificarsi solo in caso di attacco terroristico con un’arma di distruzione di massa, sia essa biologica, chimica o atomica ai danni dell’India e la cui matrice venisse riconosciuta come affiliata al governo pachistano da parte dell’intelligence di Nuova Delhi.
Dall’altra il governo di Nuova Delhi ha invece rassicurato per anni Islamabad e il mondo intero, ribadendo la dottrina del No First Strike, ovvero del fatto che non avrebbe mai impiegato per prima le proprie armi nucleari a meno che non fosse stata attaccata con tale tipologia di armamento dal nemico. In linea teorica un First Strike di successo sarebbe un colpo capace di distruggere tutte le capacità nucleari nemiche, così da evitare il tanto temuto secondo colpo nucleare. Di conseguenza, rifiutando sin dal 1998 di colpire per prima, l’India ha costantemente lavorato su due fronti, quello dello sviluppo di una capacità atomica di deterrenza del primo colpo, e quello di risposta con un secondo attacco che risulti massivo e potenzialmente inaccettabile.
Elementi cruciali in tal senso sono da una parte lo sviluppo tecnologico militare avanzato dei vettori di lancio, necessariamente sempre più precisi, controllabili ed affidabili, e dall’altra la comunicazione della propria capacità militare. Ecco che quindi la trasparenza in merito alla vera entità del proprio arsenale, la fermezza in campo di politica estera, l’intransigenza rispetto ai paletti posti rispetto agli altri Stati e la coerenza in caso di violazione delle linee politiche definite come cruciali per la sicurezza nazionale indiana, risulterebbero elementi cruciali della dottrina nucleare indiana. Esempi di ciò sarebbero l’intransigenza indiana nei confronti del Pakistan e del Kashmir, così come la conferma, nonostante le minacce di possibili sanzioni da parte degli Usa, dell’ordine da 700 milioni di dollari effettuato da Nuova Delhi alla Russia, per l’acquisto del “S-400 Triumph” un avanzatissimo sistema di difesa missilistica terra-aria antiaereo.
Più recente è invece la conferma dell’esistenza della cosiddetta dottrina “Cold Start”, a lungo negata e non ufficializzata dai quadri indiani. Tale strategia consisterebbe in un “inizio a freddo”, da parte dell’India in caso di escalation dei rapporti con il Pakistan. Dunque, nell’eventualità di conflitto armato e percepita possibilità di un imminente First Strike pakistano, i vari comparti convenzionali delle forze armate indiane, verrebbero impiegati, sfruttando la propria superiorità tecnica e quantitativa, per provare a disabilitare la capacità nucleare pakistana. Ecco quindi spiegata l’accelerazione nello sviluppo di armi nucleari miniaturizzate ed a bassa portata da parte di Islamabad, che minacciandone l’impiego in caso di attacco convenzionale, spera così di realizzare un’efficace deterrenza anche di questa ultima prospettiva.
“No First Use” in pericolo.
Secondo molti tuttavia, la regola d’oro del no first use da parte dell’India sarebbe ora oggetto di declino, sempre “meno santa,” come osservato da Narang Vipin, e invece crescentemente bistrattata. Già con la revisione della Dottrina Nucleare Indiana del 2003 il governo di Nuova Delhi si era riservato formalmente la possibilità di impiegare la capacità atomica in risposta ad un attacco biologico o chimico. Nel 2016 invece, l’allora Ministro della Difesa Manohar Parrikar aveva lanciato strali contro la dottrina del No First Use, lasciando ipotizzare una sua archiviazione, poi scongiurata da una successiva dichiarazione con la quale aveva rassicurato che la sua esternazione era stata di carattere puramente privato e non rappresentava la linea politica del governo allora in carica. Narendra Modi era Primo Ministro anche all’epoca, sempre per il Partito del Popolo che nel programma elettorale del 2014 aveva promesso la modifica, poi non realizzata, della dottrina nucleare indiana, lo stesso punto programmatico non è però stato inserito nel programma del 2019. Il 16 agosto 2019 sono però arrivati il tweet e la dichiarazione che hanno messo in subbuglio Islamabad e gli analisti di mezzo mondo, l’attuale Ministro della Difesa ha dichiarato che l’attuale dottrina potrebbe non durare per sempre, creando ambiguità in merito al futuro della colonna strategica nucleare indiana e secondo alcuni dell’equilibrio nucleare tra Pakistan ed India.
Secondo Sethi ad esempio, questa esternazione va considerata come l’ennesimo latrato di un cane che abbaia ma non morde. Per l’analista, di fatto non cambierà nulla. Secondo un collega di Harvard invece, Narang Vipin, potremmo essere arrivati al momento della svolta, e la regola d’oro del No First Use starebbe vacillando. Effettivamente non ci sono ancora state smentite, ritrattazioni o smussamenti della dichiarazione, né da parte del ministro né da parte di altri esponenti del governo. Un cambio di paradigma strategico quindi, anche alla luce del contesto geopolitico mondiale e nucleare-militare globale non sembra poi essere così improbabile.
In ogni caso la situazione di alti e bassi in Kashmir impone di stare all’erta poiché il pericolo di un’escalation nucleare è dietro l’angolo. Infatti la possibilità di un errore umano o comunque il rischio di una rapida degenerazione dei rapporti, rendono la minaccia atomica particolarmente preoccupante ed attuale. Basti solamente pensare che l’India così come il Pakistan sono caratterizzati da aree urbane ad elevatissima densità abitativa, i costi in termini di vite umane potrebbero essere quindi inimmaginabili in caso di conflitto nucleare non contenuto ed aperto.