Libia, la transizione travagliata

In Libia "tutti vogliono un fetta della torta", minando il processo di avvicinamento alle elezioni democratiche e causando una grave crisi politica, militare ed umanitaria.

Aggiornamento 05/09/2018:

ieri, nel tardo pomeriggio, la Missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL) ha annunciato il raggiungimento di un cessate il fuoco tra le parti coinvolte negli scontri.

Come si deduce dal comunicato stampa dell’UNSMIL, la tregua prevede la riapertura dell’aeroporto di Tripoli (Mitiga), l’immediata cessazione degli scontri armati e la salvaguardia della vita dei civili e delle proprietà pubbliche e private. L’accordo come si evince, non pretende di essere esaustivo, bensì mira a stabilizzare la situazione per definire un quadro negoziale pacifico entro il quale intraprendere una discussione più lunga e strutturata per risolvere le questioni ancora pendenti. Nel frattempo è stato aggiornato anche il bilancio degli scontri: almeno 61 morti e 159 feriti. 

Nell’articolo che segue un quadro di ciò che è avvenuto nei giorni precedenti.

di Elia Gerola.

Le violenze in Libia sono ricominciate da giorni, acuendosi significativamente nella regione nord-orientale della Tripolitania, che ormai da qualche settimana, vede milizie locali filo governative scontrarsi con l’avanzata di gruppi armati provenienti dal Sud del Paese, guidati dalla Settima Brigata. Il governo di Tripoli guidato da Al-Sarraj ha dichiarato due giorni fa  lo stato di emergenza e la strada verso le elezioni programmate entro il 2019 sembra essere sempre più in salita.

Gli scontri stanno interessando in particolare la parte meridionale della capitale libica, ormai sotto assedio della brigata Kanyat (settima brigata), dominatrice indiscussa della cittadina di Tarhouna, sita a 65 km a sud di Tripoli. Come riporta al Jazeera lo scopo del gruppo militare fondato originariamente dal Ministero degli Interni di Tripoli all’incirca un anno fa, sarebbe quello di “purificare” la città dalle milizie corrotte e dai politici che vivrebbero sulle spalle della popolazione. 

39 persone sarebbero morte a causa delle violenze, come riportato da un post del Ministro della Salute libico. Human Right Watch ha sottolineato che 18 erano civili. Centinaia di civili sono invece rimasti feriti. In ogni caso il bilancio non è definitivo a causa dell’instabilità della situazione, in continua evoluzione.

La settima brigata sembra essere mossa dal desiderio  realista di acquisire più influenza nell’area, che ha visto invece consolidarsi a partire dal 2016, anno in cui il Governo di Alleanza Nazionale riconosciuto dall’Onu si è insediato, il potere di un cartello di 4 milizie locali che hanno formato il cosiddetto Battaglione delle Milizie di Tripoli, costituito dalla Tripoli Revolutionary Brigade, dalla Nawasi Brigade, dalla Special Deterrence Force e dalla Abu Slim unit of the Central Security apparatus. Secondo una logica eminentemente utilitaristica queste forze, al soldo del debole Ministero degli Interni di Tripoli, stanno fornendo protezione all’ancora meno assertivo governo sostenuto dalla comunità internazionale, ricevendo in cambio riconoscimento, legittimazione ed influenza politiche, non poco per uno stato caratterizzato da un’incessante rivalità tribale tra più di un centinaio di gruppi armati.

A ognuno una fetta della torta

Nello spiegare le dinamiche in corso ai microfono di Al-Jazeera, Megerisi, un analista politico è piuttosto netto: “Ciascuno sta combattendo per una fetta della torta”. In tutto ciò però la popolazione civile libica sembra essere quella più martoriata. Venerdì a causa degli scontri è stato chiuso l’aeroporto di Tripoli, mentre domenica, un preoccupatissimo Al-Sarraj, ha dichiarato lo stato di emergenza su tutta l’area della capitale per “proteggere e assicurare la sicurezza dei civili, delle proprietà pubbliche e private e delle istituzioni essenziali”.

La comunità internazionale, mossa sia da sentimenti umanitari sia da interessi economico finanziari – la Libia è infatti il primo produttore di petrolio in Africa – si dice preoccupata e appare strategicamente in affanno. Un comitato di esperti dell’Onu, ha intanto denunciato il pericolo che le sedi della Banca Centrale, così come del Fondo d’investimento libico e della Compagnia Petrolifera Nazionale, finiscano nelle mani sbagliate.Soprattutto gli  interessi economici quindi hanno portato ad una timida dichiarazione congiunta, rilasciata tra gli altri da Usa, Italia e Francia. Le potenze occidentali hanno sottolineato come i responsabili dovranno essere puniti. Almeno per l’Italia , l’intervento militare non sembrerebbe però la scelta ideale.

Persino gli Usa starebbero pensando al disimpegno. Il britannico Guardian, scrive infatti che, sebbene il Pentagono stia continuando i bombardamenti sulle posizioni controllate dalle milizie riconducibili a ciò che rimane al sedicente Stato islamico, starebbe cominciando a programmare una ritirata completa delle proprie forze speciali. Intanto la situazione si complica, ulteriori vuoti di potere e quindi violenze potrebbero emergere, senza nessuno che possa offrirsi da mediatore in loco. Le ambasciate internazionali sono infatti state quasi tutte chiuse e trasferite nella vicina Tunisia, mentre il governo italiano starebbe pensando di proporsi come riconciliatore terzo tra le parti in conflitto.

Elezioni alle porte

Fayez al-Sarraj, Primo ministro della Libia

In base alla tregua nazionale e al piano di transizione politica sottoscritti a Parigi nel maggio 2018, con la mediazione del presidente francese Macron, entro la fine del 2019 dovrebbero essere tenute le prime elezioni democratiche. Il patto è stato concordato dal governo di Tripoli nella persona di Al-Serraj e da Kahlifa Haftar, alla guida di quello di Tobruk, sito nella parte orientale del Paese e non riconosciuto ma persino più stabile del primo. La transizione democratica in corso da ormai 7 anni ed innescatasi con l’arrivo del vento delle cosiddette Primavere Arabe in Libia è però in costante travaglio. Le violenze non hanno tregua e anche la prima scadenza pre-elettorale, prevista per il 16 settembre, data entro la quale dovrebbe essere definita la base costituzionale, legale e tecnica della tornata elettorale sembra dover essere posticipata.

La crisi non riguarda solo i civili ma anche i migranti. 18 sarebbero i morti civili ufficiali: gli ultimi sono  due sfollati morti sabato all’interno di un campo di soccorso allestito dalle autorità local, a causa di colpi di mortaio.  Medici Senza Frontiere ha recentemente lanciato un secondo allarme: la Libia non è un Paese sicuro per i centinaia di migranti, per la maggior parte rifugiati di guerra in fuga da altre violenze. Il portavoce di Msf ha infatti denunciato come durante le violenze locali i migranti siano spesso segregati in prigioni improvvisate. Secondo Nigrizia, attualmente vi sarebbero 45 mila migranti, secondo Msf 8000 mila degli stessi, sarebbero stati barricati per 48 ore in un area coinvolta negli scontri senza accesso a cibo. Come riporta l’Unhcr infatti, circa la metà dei migranti proverrebbe da Paesi in conflitto: Eritrea, Etiopia, Somalia e Sudan. Il 31 agosto lo stesso Unhcr, in collaborazione con Msf e l’Oim, avrebbe organizzato il trasferimento di 300 migranti da un centro di detenzione giudicato in pericolo di attacco a quello più sicuro Abu Salim. Le dichiarazioni delle organizzazioni umanitarie  sono nette: la Libia non può essere considerata “Paese sicuro” e la vita dei rifugiati di guerra e dei migranti è in costante pericolo.

Impunità

 Il rischio è che non solo i responsabili delle attuali violenze non paghino, ma che anche quelli imprigionati per aver aiutato il regime di Gheddafi nelle repressioni del 2010-2011 la facciano franca. Come spiega Bbc , la polizia di Tripoli ha infatti denunciato l’evasione di massa di 400 detenuti dalla prigione di Ain Zara, il cui apparato di sorveglianza sarebbe stato indebolito a causa degli scontri militari nella città. Evento paradigmatico quest’ultimo della debolezza delle autorità locali e della criticità della situazione.

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