Sono estremamente restrittive. I prigionieri sono tenuti in cella per la maggior parte del tempo, tranne che per le visite o gli incontri con i loro avvocati. Belmarsh non è un carcere di detenzione a lungo termine, tranne che per Julian, che è la persona che è rimasta più a lungo nella sua ala. Di solito le persone rimangono lì durante il processo e poi vengono mandate in un altro carcere, o rilasciate. Nel suo caso la permanenza è a tempo indeterminato. Sono passati 4 anni e 3 mesi e non è ancora finita.
Non direi liberamente, perché non si tratta affatto di una visita privata. Nella sala delle visite ci sono circa 40 tavoli e un centinaio di persone tra detenuti, visitatori e guardie. Inoltre le telecamere sono ovunque. Si deve stare seduti al proprio tavolo e non ci si può alzare e camminare o andare alla finestra. Ma anche con queste restrizioni, c’è molto di cui parlare. Abbiamo circa un’ora e mezza in cui ritroviamo una sorta di normalità e possiamo parlare di cose leggere o commentare le notizie. Talvolta le conversazioni sono più intellettuali o politiche, ma la perlopiù si tratta di tenerlo in contatto con il mondo. Gli parlo dei bambini e di ciò che accade a scuola e loro gli cantano le canzoni che stanno imparando. Questa è la parte più dolce di queste visite.
Finora, chi è stato al suo fianco? Di recente abbiamo ascoltato la dichiarazione di Lula da Silva, che ha chiesto il rilascio di Julian.
I partner storici – Le Monde, El Pais, The New York Times, The Guardian e Der Spiegel – sono stati piuttosto lenti a farsi sentire. A novembre 2022 hanno rilasciato dichiarazioni, affermando che il caso dovrebbe essere archiviato e che Julian dovrebbe essere rilasciato. Tutto ciò era vero già quattro anni fa, quando fu arrestato. E lo era ancora prima. Durante la sua permanenza in ambasciata (ambasciata dell’Ecuador a Londra, ndr) non poteva uscire senza essere arrestato. Le autorità lo hanno trattato come un caso eccezionale lasciandolo in uno stato di permanente incertezza giuridica. Allo stesso tempo, i Paesi coinvolti si rifiutavano di garantire che non sarebbe stato mandato negli Stati Uniti. Per nove anni non c’è stata alcuna accusa, eppure lo trattavano come fosse colpevole. Una volta arrestato, il pretesto per tenerlo in custodia, ovvero l’indagine svedese, è venuto meno. A quel punto il vero volto della persecuzione si è rivelato in tutta la sua forza.
C’erano di mezzo una personalità specifica e gelosie giornalistiche. Così le persone che hanno collaborato, una volta ottenuto ciò che serviva, cioè il materiale vero e proprio, non hanno visto alcun incentivo a difendere Julian, perché contestavano ciò che stava facendo con Wikileaks, ritenendolo professionalmente un rivale. Questi giornali avevano una grande reputazione, ma stavano anche attraversando un’enorme crisi finanziaria e non sapevano come sarebbero sopravvissuti. E poi è arrivato Julian, con una reputazione internazionale guadagnata grazie alla qualità delle sue pubblicazioni e all’importanza delle stesse. Così sono stati costretti a collaborare con lui perché il progetto era molto più grande di qualsiasi cosa avessero fatto individualmente. Quando il sistema giudiziario lo ha messo a tacere e imprigionato, il loro rivale si è trovato in difficoltà legali e hanno potuto semplicemente girarsi dall’altra parte.
È innegabile che non abbiano riportato in modo critico ciò che stava accadendo. Hanno negato al loro pubblico, ai loro lettori, un’analisi e una spiegazione adeguata di ciò che è stato fatto a Julian. E questo è un dato di fatto perché c’è stata un’indagine indipendente delle Nazioni Unite sull’intero periodo in cui Julian è rimasto nell’ambasciata. Il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria ha esaminato il caso per quattordici mesi ed è giunto alla conclusione che gli Stati Uniti e il Regno Unito avevano colluso per negargli i diritti fondamentali, violando il diritto internazionale. La stampa ha ignorato questa decisione. È stato come un tentativo attivo di nascondere la testa sotto la sabbia e negare la realtà. A un certo punto questo comportamento diventa negligenza e quando si inizia ad ammetterlo, si ammette di non essere stati capaci di agire e di aver sbagliato per tutto il tempo. Le cose sono cambiate nel corso degli anni. Gli esperti del settore – Amnesty International, i gruppi per la libertà di stampa, Humans Rights Watch e persino il Consiglio d’Europa – hanno chiarito che si tratta di un grave abuso. Ora c’è anche un sostegno politico. L’anno scorso, per esempio, il Parlamento europeo lo ha scelto come uno dei tre finalisti del Premio Sakharov.
È chiaro che ciò che è stato fatto a Julian è un messaggio, un forte deterrente per tutti coloro che sono là fuori, non solo per i giornalisti e gli editori. Ancor di più perché il Regno Unito non ha battuto ciglio. Julian non avrebbe dovuto trascorrere un solo giorno in carcere. Il fatto che l’abbia fatto, dimostra che c’è stato un indebolimento catastrofico delle garanzie che dovrebbero prevenire questo tipo di azioni legali. L’effetto sortito, è quello di ridurre la portata del diritto all’informazione e la consapevolezza pubblica dell’autorità abusiva. Se c’è un’autorità abusiva che è protetta dal controllo attraverso la segretezza, se si punisce chi cerca di denunciare le malefatte, queste persone si scontreranno con coloro che hanno commesso i crimini sotto l’autorità del potere. Nell’ultimo decennio, quindi, abbiamo assistito a un uso sempre più massiccio del “lawfare”. E questo va di pari passo con l’aumento dei poteri dello Stato attraverso la legislazione antiterrorismo, che viene però utilizzata in casi che con il terrorismo non hanno nulla a che fare.Ciò è particolarmente evidente nel caso di Julian è il caso più evidente perché parte dal presupposto giuridico, completamente assurdo, per il quale qualcuno che si trova in un altro Paese, che non è nemmeno un vostro cittadino, sta violando le vostre leggi sulla parola e sulla segretezza. Significa che le giurisdizioni non contano e che esiste solo il potere mondiale.
È sempre stato così quando c’è una guerra. C’è uno sforzo maggiore di controllare la narrazione. La differenza, ora, è che i luoghi in cui possiamo comunicare non sono sotto il nostro controllo. Sono controllati dalle società di social media, che hanno anche i loro pregiudizi. Ad esempio, secondo quanto emerso dalle rivelazioni dei File di Twitter, i servizi segreti ucraini hanno chiesto all’FBI di far chiudere alcuni account su Twitter, fra cui quello di un giornalista americano pluripremiato. L’FBI ha trasmesso tali richieste. C’è da riconoscere a Twitter di non aver assecondato la richiesta, ma questo genere di cose accade e quando si hanno i mezzi per controllare la discussione, ovviamente coloro che hanno un enorme interesse a controllarla non si pongono limiti. Ciò che è cambiato è che la piazza pubblica è ora online e non è più veramente pubblica.
Da quando sono disponibili questi nuovi mezzi di controllo, abbiamo assistito a una proliferazione di quello che alcuni chiamano il complesso industriale della censura. Se all’improvviso si crea un’economia del controllo delle cosiddette fake news, ciò consente di coprire la manipolazione delle informazioni. Deve esserci un libero flusso di informazioni perché quelle buone prevalgono su quelle cattive. Succede purtroppo l’esatto contrario. Si tratta di un istinto autoritario sviluppato da coloro che hanno molto da perdere dall’apertura democratica.
Dobbiamo continuare a mettere in evidenza queste ipocrisie. O siamo d’accordo su concetti universalmente validi quali i crimini di guerra, o non lo siamo. E se non lo siamo, allora possiamo buttare via l’intero sistema. Questo tipo di eccezionalismo esiste da molto tempo. Basti pensare alla Corte penale internazionale, che gli Stati Uniti hanno contribuito a istituire e a creare, per poi ritirarsi e non essere più sotto la sua giurisdizione. Se si cerca di mettere in piedi una serie di sforzi per perseguire i peggiori crimini, allora bisogna accettare di dover rispondere di essi. Non si può semplicemente dire “ok, e questo vale per il resto del mondo” (ma non per noi, ndr).
Questo sta già accadendo. Basta guardare le principali reti televisive che un tempo erano seguite dalla maggioranza dei telespettatori. Sono state abbandonate. La gente si è stufata e si è semplicemente rivolta altrove. Allo stesso tempo, si è sviluppato un panorama mediatico alternativo molto interessante. Alcuni dei nomi più importanti di quelle stesse pubblicazioni hanno creato i loro canali per comunicare direttamente con i propri lettori e il proprio pubblico. Credo che l’educazione dei lettori/spettatori, stia migliorando e crescendo. Per quanto riguarda l’amministrazione, il caso contro Julian è estremamente controverso. Non c’è mai stato un atteggiamento uniforme nei suoi confronti. E questo in parte perché tutti i principali giornali hanno detto che dovrebbe essere abbandonato. Anche all’interno del Dipartimento di Giustizia, ci sono stati procuratori che hanno lasciato il caso perché non erano d’accordo con le accuse. Sotto l’amministrazione Obama, il caso non è stato perseguito. Naturalmente l’amministrazione Trump ha accettato di procedere, ma è stato allora che il procuratore del Dipartimento di Giustizia ha deciso di rinunciarvi. Come afferma il New York Times, “questo è un caso che colpisce al cuore il Primo Emendamento”. Nelle più ampie democrazie liberali occidentali è in atto una crisi della libertà di parola. Ciò che da sempre la proteggeva viene eroso culturalmente, politicamente e persino legalmente. C’è il pericolo di un allontanamento reale e permanente da questi principi. Non credo che sia già successo, ma è certamente un rischio concreto.
Incontro continuamente persone oneste. Sono quasi diventata spirituale a riguardo. Dobbiamo credere nell’umanità. Ci sono persone che vogliono sostenere Julian e noi per un elementare senso di decenza e giustizia, e credo che questo sia fondamentale, a prescindere dall’ideologia. Gli elementi di base della civiltà umana devono cercare di mantenere questo senso e di alimentarlo, trovando il modo di superare le nostre differenze. Non dobbiamo perdere la fiducia nel potenziale delle persone che si uniscono e cercano di cambiare il mondo in meglio.
Free Assange
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L’autore delle illustrazioni
DoubleG è abruzzese di nascita, bolognese d’adozione, laureato in studi umanistici e precario. Da sempre “divoratore” di fumetti, negli ultimi anni da autodidatta realizza e collabora alla stesura di fumetti e grafiche nel circuito indipendente. Dice di sé: “Mi diverto a disegnare la realtà e l’attualità vista con la lente deformante della mia ironia”.