L’eredità di al-Baghdadi

Il futuro dopo il Califfo senza più Califfato. L'autoproclamato Stato islamico che non ha  più leader né capitale ma continua a esistere

di Giuliano Battiston ed Emanuele Giordana

Il primo numero di Rumiyah. Nel 2016 ha sostituito il magazine Dabiq. Solo sul web e fino a settembre 2017. Lo Stato islamico è anche senza giornale

Se il Califfo senza più Califfato è morto e il suo corpo gettato in mare,  l’autoproclamato  Stato islamico ancora non lo è. È l’unica cosa certa sul decesso di Abu Bakr al-Baghdadi nel villaggio siriano di Barisha. Tutto il resto andrà valutato nei prossimi mesi. Così la tenuta complessiva dell’organizzazione, che a dispetto della perdita territoriale vanta un sistema burocratico-militare ancora efficiente e, a giudicare dalla storia passata – più ampia di quella dell’ultimo leader –, un’elevata flessibilità strategica; così la capacità attrattiva del gruppo, che perde il leader, centrale sul piano simbolico più che operativo, ma con un “martirio” che nel panorama jihadista funziona da catalizzatore delle adesioni e benzina della propaganda, più che come simbolo di debolezza e codardia, come sembra invece supporre Donald Trump.

Il futuro dello Stato islamico dipende ora dalla capacità di evitare conflitti interni sulla leadership o sulla struttura di comando, così come di convincere vecchi e nuovi militanti che il marchio confezionato da al-Baghdadi continua a essere preferibile all’altro, concorrenziale sul mercato jihadista: la vecchia al-Qaeda del longevo Ayman al-Zawahiri, l’egiziano che ha scelto per l’organizzazione fondata da Osama bin Laden una strategia opposta rispetto a quella di al-Baghdadi: attendista, di radicamento silenzioso, non muscolare ed esibita. E vincente.

L’idea del Califfato è antica. In questa mappa i suoi confini secondo un’organizzazione islamista. Quali sono quelli dello Stato islamico?

Per ora, lo Stato islamico continua inoltre a disporre degli elementi più importanti per un’organizzazione terroristica: soldi, armi, reclute e un’ideologia che conferisce legittimità e definisce il perimetro del dentro e del fuori, degli amici e dei nemici, degli affiliati e degli obiettivi ultimi. Vale in Siria e Iraq, Paesi in cui le condizioni strutturali che hanno consentito l’ascesa dello Stato islamico rimangono pressoché invariate. Diverso il discorso per le varie “Province/Wilayat”, le aree in cui l’attivismo frenetico di al-Baghdadi e il desiderio di mettere bandierine nere in ogni angolo del pianeta ha portato all’affiliazione di gruppi più o meno forti e strutturati, dall’Egitto allo Yemen, dall’Algeria all’Africa centrale, dal Caucaso alla Nigeria, dall’Arabia saudita all’Afghanistan, culla del jihad contemporaneo e cuore del progetto asiatico di Abu Bakr al-Baghdadi, che all’inizio del 2015 ha riconosciuto la nascita della cosiddetta “provincia del Khorasan”. L’atto di fedeltà di queste province era rivolto a lui, al-Baghdadi. Non è detto che il successore saprà fare altrettanto bene e mantenere tanti gruppi diversi sotto lo stesso cappello.

Foto segnaletica di Abu Bakr al-Baghdādī detenuto a a Camp Bucca nel 2004

Il Wilayat Khorasan – guidato da Mawlawi Aslam Farooqi – è la provincia dello Stato islamico che comprende Afghanistan e Pakistan e che forse, in un primo momento, aveva giurisdizione anche su altre aree più a oriente. Secondo un rapporto al Consiglio di sicurezza dell’Onu (luglio 2019), conterebbe in Afghanistan tra i 2.500 e i 4mila combattenti, locali e stranieri. Concentrato soprattutto nelle province di Nangarhar e Kunar (i tentativi di penetrare Paktiya e Logar sono falliti), ha per nemici il governo e i suoi alleati ma anche gli stessi Talebani. E’ però molto attivo sul fronte degli attentati, specie contro le minoranze sciite, l’ultimo dei quali e il più eclatante è stata la strage a un matrimonio sciita a Kabul in agosto con oltre sessanta morti. Rapimenti e riscatti, traffico di minerali e legname (ma non droga) finanziano le sue casse cui non è forse estranea qualche intelligence straniera. La situazione attuale in Afghanistan – con continui rinvii per decretare il vincitore delle elezioni, e con un processo di pace tra Talebani e americani che stenta a ripartire – è quella forse migliore rispetto ad altre aree di intervento a Est di Kabul.

In Pakistan, la campagna anti terrorista del premier Imran Khan sembra aver messo in difficoltà i gruppi jihadisti che scontano una ripresa del movimento islamista legale col quale Khan è più

al-Baghdadi nel famoso video col discorso nella moschea

morbido anche per via della spinosa questione del Kashmir. Eppure è proprio in Kashmir che, nel maggio scorso, il califfato ha annunciato la nascita del Wilayat Hind, attribuendosi anche scontri con le forze di sicurezza indiane a Amshipora, una cinquantina di chilometri da Srinagar. Ma in India non è successo nulla così come in Bangladesh, inizialmente punta di lancia asiatica del califfo ma da due anni silente. Non così a Sri Lanka dove il 21 aprile scorso gli attentati della domenica di Pasqua (258 morti) furono rivendicati dallo stesso al-Baghdadi la cui forza nel Sudest asiatico sembra però molto diminuita. Non è più l’epoca dei viaggi in Iraq e Siria di maldiviani, malesi e indonesiani anche se nel 2017 l’Isil (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, una delle tante dizioni)prese il controllo di Marawi, a Mindanao, per cinque mesi.

L’ultimo attentato attribuito all’Isil è quello al ministro indonesiano Wiranto. E anche se dal 2018 ci sono stati 11 attacchi suicidi in Indonesia e 6 nelle Filippine la strada per Isil sembra in salita e nonostante i timori di una riorganizzazione sembra in mano a singoli, tallonati dalla polizia ma anche dagli arci nemici di al-Qaeda.

In copertina, al-Baghdadi dall’ultimo suo video diffuso

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